Ma rileggetevi le Lettere di don Milani. Ma fate un corso rapido di democrazia, prendete ripetizioni dal prete di Barbiana, copiate la sua lezione di tolleranza. «Lui cercava di instaurare l'abitudine ad osservare le cose del mondo con spirito critico. Senza sottrarsi al confronto, senza pretendere di mettere a tacere qualcuno, tantomeno un libro o la sua presentazione. Insomma, invitava a saper discernere».
E no, a Sergio Mattarella quelle clamorose contestazioni a Eugenia Roccella, ministra della Famiglia, non sono piaciute proprio per niente. Togliere la parola, impedire di esprimersi: brutto segno, bruttissimo. Al Salone del Libro poi, luogo che per definizione e storia dovrebbe essere dedicato solamente al dibattito, allo scambio di idee. L'irritazione profonda del capo dello Stato per un simile sgarbo alla convivenza civile è maturata per quasi sette giorni finché si è sfogata, con la misura tipica del personaggio ma con la forza del messaggio da mandare, alla prima occasione utile. E la ministra ha ringraziato: «Apprezzo le parole di Mattarella».
Eccolo quindi il presidente a Barbiana, tra i boschi del Mugello, per la cerimonia dei cento anni dalla nascita di Lorenzo Milani. Prete ruvido, «scomodo», sacerdote dei poveri e delle periferie, mal sopportato dal potere e dalle gerarchie ecclesiastiche, però capace di «educare i giovani, far crescere le persone, battersi per i diritti». I care, questo ricorda Mattarella, «il suo motto universale», ed è un po' il contrario di quanto è accaduto a Torino. «La scuola di Barbiana durava tutto il giorno. Cercava di infondere la voglia di imparare, la disponibilità a lavorare sempre insieme agli altri», altro che «far tacere un libro».
Don Milani, spiega il capo dello Stato, «aveva un senso fortissimo della politica; se il Vangelo era il fuoco che lo spingeva ad amare, la Costituzione era il suo Vangelo laico». Lo cita, pure: «Ho imparato che il problema degli altri è uguale al mio. Se sortiamo insieme è la politica, se lo facciamo da soli è l'avarizia». Una concezione, commenta Mattarella, «di notevole modernità» da parte di «un battistrada di una cultura che ha battuto il privilegio e l'emarginazione», come si capisce dal suo modo di insegnare.
E qui c'è il secondo riferimento all'attualità e allo scontro tra i partiti, il dibattito sul merito: per il capo dello Stato «non deve amplificare il vantaggio bensì dare più opportunità». Ancora. «La conoscenza, secondo don Milani, non è soltanto un diritto di tutti, ma anche uno strumento per ottenere il pieno sviluppo della personalità umana». Si, davvero un prete difficile, che oggi «sorriderebbe» delle tante etichette contrastanti che negli anni gli hanno appiccicato. «Antimoderno se non medievale o, all'opposto, antesignano delle contestazioni dirette allo smantellamento di un modello ritenuto autoritario».
La verità, come capita, è nel mezzo. «Nella sua inimitabile azione di educatore pensava piuttosto alla scuola come luogo di promozione e non di selezione sociale, una visione di gran lunga più avanti di quanti si attardavano in modelli difformi dal dettato costituzionale».
Vale pure per oggi. «Lo studio come leva per contrastare la povertà. Un insegnamento che serva per conoscere, per imparare anzitutto la lingua, per sapere usare le parole».
Il mondo infatti, come
sosteneva don Milani, «si divide in due categorie» e non solo per ricchezza e intelligenza. Quello che conta alla fine è il serbatoio delle parole. «Poterne usare mille o cento» fa la differenza, anche da un Salone del Libro.
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