Il "capo", il "socio", l'"esecutore": il "trio forchetta" è in disgrazia

Stresa ha già disconosciuto il gestore e i suoi uomini

Il "capo", il "socio", l'"esecutore": il "trio forchetta" è in disgrazia

Luigi Nerini, il «capo»; Gabriele Tadini, il «braccio destro»; Enrico Perocchio, l'«esecutore». Tre ruoli per una banda accomunata da un tacito accordo: evitare rogne. Ma alla fine quello che gli è piombato addosso è ben più di una rogna: 14 morti sulla coscienza non sono uno scherzo e, al di là dell'aspetto morale della questione, il «dramma del Mottarone» potrebbe trasformarsi penalmente in molti anni di galera.

Intanto i tre protagonisti della sciagura della funivia di Stresa si ritrovano a fare i conti con una «condanna pubblica» che ribalta completamente l'immagine che li aveva caratterizzati finora: cioè quella di tre uomini «perbene» e di tre professionisti «scrupolosi». Ma ora la gente si sente tradita. In cima alla piramide delle responsabilità il «tribunale del popolo» ha già messo un nome. È quello del gestore dell'impianto, Luigi Nencini, 56 anni, capo della Società Ferrovie del Mottarone (fatturato da 1,8 milioni all'anno, con una concessione fino al 2028). Da 48 ore nessuno in paese si azzarda più a chiamarlo confidenzialmente «Gigi» come hanno sempre fatto tutti prima che venisse fuori la verità sul crollo della funivia. Poi c'è lui: lo «storico collaboratore», Gabriele Tadini, residente a Borgomanero, l'uomo che gestiva i comandi della funivia alla stazione intermedia di Alpino; ha difeso strenuamente il suo «capo», cercando di assumersi per intero tutta la responsabilità della tragedia. Infine c'è quello che pare essere l'anello più debole della catena: Enrico Perocchio, l'«addetto ai controlli», dipendente della Leitner e libero professionista con mansioni di «certificatore di impianti».

Ieri a Villa Claudia l'elegante dimora a Baveno, dove Luigi Nerini ha sempre vissuto con i suoi due figli dopo essersi separato dalla moglie, gli operai impegnati nei lavori di ristrutturazione della facciata dell'edificio con vista lago, non si sono presentati. Anche i due figli ventenni dell'imprenditore sotto accusa hanno cambiato aria. Fino a ieri la famiglia Nerini era rispettata e forse anche invidiata, come avviene sempre nei piccoli centri dove qualcuno ha la «colpa» di avere avuto successo. E Luigi Nerini quel successo l'aveva ottenuto grazie a non pochi appoggi e protezioni, cose che non gli avevano evitato di attraversare momenti di crisi dai quali però si era sempre risollevato attraverso un combinato disposto di capacità personali e «aiutini» esterni. Sul «Gigi» tutti mettevano la mano sul fuoco, ma ora - quella mano - tutti la ritirano sdegnati: troppo forte la paura di bruciarsela. Del resto i verbali di interrogatorio parlano chiaro. I tre hanno «confessato» quanto basta per salire sulla gogna e non scenderne più. «Troppo tardi» per rimediare.

Eccole le due parole che martellano la testa del «trio forchetta» Nerini, Tadini e Perocchio: «Troppo tardi». Certo, ognuno di loro «non poteva immaginare che...», eppure quello che non avevano - colpevolmente - mai sospettato accadesse, è accaduto davvero. E ora è «troppo tardi». Per tutto. Eccetto che per fare giustizia.

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