L'aveva promesso, l'ex ministro Claudio Scajola: parteciperò a ogni udienza. Ma non era affatto attesa la sua presenza in aula a Reggio Calabria nel processo con rito immediato che lo vede alla sbarra con l'accusa di aver agevolato la latitanza dell'ex parlamentare di Forza Italia Amedeo Matacena, condannato in via definitiva dalla Cassazione per concorso esterno in associazione mafiosa, portandolo da Dubai dove adesso si trova a un Paese più “protetto” come il Libano. Un reato che il codice definisce "procurata inosservanza della pena" e che può valere si e no una condanna a un anno o poco più, spiccioli di fronte ai quasi 180 giorni che Scajola ha già trascorso tra detenzione e domiciliari. A meno che non scatti l'aggravante mafiosa, che però gip e tribunale della libertà hanno già respinto più volte, l'ultima volta immediatamente prima dell'inizio del processo. La prima udienza come da prassi è stata dedicata alle schermaglie procedurali che hanno riguardato soprattutto la scelta del rito immediato (“una scelta che si fa di solito con i rei confessi e con un reato conclamato”, sibila nei corridoi l'avvocato di Scajola Giorgio Perroni, che ha chiesto (inutilmente) anche di ricominciare il processo daccapo con un capo d'accusa a suo dire più preciso e soprattutto un'udienza preliminare per studiare le carte dell'accusa.
Le sue riserve sono state bocciate dalla corte presieduta da Natina Pratticò, che però ha dato alle parti due settimane per studiare la mole di documenti e di intercettazioni legate alle indagini. Il processo vero inizierà il 6 novembre: sarà probabilmente tutt'altro che immediato, visti gli oltre 200 testimoni che accusa e difesa hanno intenzione di convocare. Il sospetto dei legali è che dietro la scelta del rito si nasconda l'esigenza da parte dell'accusa di processare Scajola da detenuto (come prevede la legge in questi casi), quasi come se l'eventuale scarcerazione dell'ex titolare del Viminale potesse indebolire l'impianto dell'accusa. Il pm antimafia Giuseppe Lombardo è rimastro granitico nelle sue convinzioni: considera Scajola come terminale di una presunta Spectre affaristico-massonica che si occuperebbe di proteggere e tutelare politici in odore di mafia, garantendo loro latitanze dorate in Libano o negli Emirati attraverso complicità diplomatiche e di intelligence, come è successo per Marcello Dell'Utri. C'è una parte dell'inchiesta, quella che riguarda la moglie di Matacena Chiara Rizzo, verrà discussa in abbreviato il 13 novembre ed è stata stralciata (anche la segretaria di Matacena, Maria Grazia Fiordalisi, quella di Scajola Roberta Sacco, e il factotum di Matacena, Martino Politi hanno scelto il rito abbreviato), e con il processo tutto il gossip che ha maliziosamente accostato Lady Matacena e l'ex ministro in una improbabile liason amorosa di cui peraltro nelle carte non pare esserci traccia. A pesare su tutto il processo è la spada di Damocle dell'aggravante mafiosa.
Sull'ennesima bocciatura del tribunale del Riesame di Reggio Calabria, che ha dichiarato inammissibile il ricorso della Dda contro la decisione del gup, il pm ha chiarito che il verdetto del Riesame non è una bocciatura dell'accusa né una valutazione di merito, ma solo che ogni decisione è prematura rispetto all'andamento del processo.
Non è escluso dunque che l'aggravante mafiosa possa rientrare nel corso del processo, sebbene su questo tema gli avvocati di Scajola siano assolutamente concordi: “Un reato uscito dalla porta, bocciato dal gip al momento degli arresti e oggi anche dal Riesame non può rientrare dalla finestra, soprattutto vista la fattispecie del rito immediato che la Procura ha inteso intraprendere”.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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