A chi obbediva Pasquale Striano, il tenente della Guardia di finanza che confezionava dossier illegali dai computer della Dna, la Procura nazionale antimafia? Una risposta chiara arriva finalmente ieri davanti alla Commissione parlamentare antimafia, impegnata da mesi a cercare di far luce sulla centrale di dossieraggio. Viene interrogato Stefano Rebechesu, colonnello della Gdf. E dice: «Tutte le funzioni promanavano come incarichi dal procuratore nazionale tramite il consigliere Laudati», ovvero Antonio Laudati, il pm antimafia finito anche lui sotto inchiesta.
Il problema è che il «procuratore nazionale» di cui parla il colonnello nella sua testimonianza ha un nome: Federico Cafiero de Raho, oggi deputato 5 Stelle e vicepresidente dell'Antimafia. All'epoca dei dossieraggi era lui a guidare la Dna, ma oggi giura di non essersi accorto di niente e di non avere avuto alcun ruolo nell'ufficio della coppia Laudati-Striano. Ora la deposizione di Rebechesu lo chiama in causa direttamente, e appare destinata a rinfocolare le accuse di conflitto di interessi che il centrodestra muove da tempo a Cafiero, chiedendogli di farsi da parte. Lui resiste al suo posto, anche se ieri in aula non si è fatto vedere.
A rendere delicata la posizione di Cafiero c'è un altro passaggio della testimonianza del colonnello. Rebechesu rivela ai deputati: non era solo Striano a passare ai giornalisti amici il contenuto delle segnalazioni. «Abbiamo rilevato pubblicazioni sugli organi di stampa, di contenuti per sintesi ma anche di contenuti virgolettati, con dei passaggi ripresi integralmente rispetto al testo delle segnalazioni». Cafiero era già alla Dna, ma neanche di questo sembra che si fosse accorto. Quali erano i giornali miracolati? «Su questi aspetti ritengo opportuno procedere per audizione riservata», dice Rebechesu. Richiesta accolta, si spengono le webcam, si procede a porte chiuse.
La commissione parlamentare, come si vede, sta puntando in profondità nei meccanismi dei dossieraggi, anche per il forte impegno della sua presidente Chiara Colosimo. Che però adesso viene presa di mira, con una lettera che la accusa di essere «incompatibile» col suo ruolo, per come sta dirigendo i lavori su un altro tema cruciale, l'uccisione nel 1992 del pm Palo Borsellino e della sua scorta. Nel complicato universo dei parenti delle vittime di mafia, a chiedere la cacciata della Colosimo è un circuito legato a doppio filo alla vecchia gestione della Procura di Palermo, specializzata nella caccia di livelli occulti più o meno verosimili. Questo circuito si ritrova a fare i conti con i guai in cui sono finiti alcuni suoi miti: gli ex magistrati Giuseppe Pignatone e Gioacchino Natoli, indagati per favoreggiamento alla mafia, il loro collega Roberto Scarpinato, ora anche lui deputato 5 Stelle, sorpreso a combinare con Natoli la sua audizione in Commissione. La linea dura della Colosimo viene definita «una vergogna di uno Stato che ritiene di poter allontanare i suoi più valorosi servitori».
Il gruppo dei firmatari è guidato da Salvatore Borsellino, fratello di Paolo: ma va ricordato, a riprova di quanto il mondo dei familiari sia diviso, che a dare il via alla inchiesta bis su via d'Amelio, che ha portato alla incriminazione di
Pignatone e Natoli, sono stati gli esposti di Fiammetta Borsellino, figlia di Paolo, e di suo marito Fabio Trizzino. Che pensano che la vera storia della strage vada cercata a Palermo, e non nell'iperspazio dello Stato deviato.
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