La Cassazione conferma: sarà possibile licenziare per eccesso di Facebook

Sentenza confermata: in 18 mesi la segretaria aveva effettuato 4.500 accessi sulla piattaforma

La Cassazione conferma: sarà possibile licenziare per eccesso di Facebook

L a scarsa conoscenza del web genera mostri. O, meglio, licenziamenti. Per giusta causa. Ci si dimentica - o non lo si sa proprio - che tutto ciò che si fa online è tracciabile. Che la geolocalizzazione permette di risalire a dove ci si trovava mentre si chattava. E che i social network sono come piazze digitali: così come non si potrebbe scendere al bar a prendere un caffè durante l'orario di lavoro, non ci si può intrattenere tra post e like mentre si è in ufficio. Deve averlo dimenticato la segretaria di uno studio medico licenziata in tronco per «eccesso di Facebook». La donna, impiegata part time, nell'arco di 18 mesi aveva effettuato dal pc dell'ufficio circa 6mila accessi a Internet, di cui 4.500 sulla piattaforma, «per durate talora significative». Con una sentenza depositata ieri la Cassazione ha confermato la legittimità del provvedimento, rigettando il ricorso della lavoratrice. Secondo i giudici non c'è nessuna «violazione delle regole sulla privacy», come sostenuto dalla donna, e la consultazione di siti «estranei all'ambito lavorativo» è riconducibile a lei grazie al fatto che «gli accessi alla pagina personale Facebook richiedono una password», cosa che esclude «dubbi sul fatto che fosse la titolare dell'account ad averlo eseguito».

Non saper rinunciare alla propria identità digitale, dunque, può costare il posto di lavoro. Anche quando la distrazione è accertata con metodi, per così dire, atipici. Come nel caso dell'operaio abruzzese cacciato nel 2012 dall'azienda in cui lavorava perché perdeva tempo a chattare online. Per sua sfortuna dall'altra parte dello schermo c'era il responsabile delle risorse umane della ditta, che aveva creato un profilo falso - fingendosi donna - per cogliere in «flagranza di chat» il dipendente. Istigazione allo svago? Non secondo la Corte Suprema, che ha ritenuto legittimo lo stratagemma poiché non era finalizzato a controllare il lavoro svolto dal dipendente - cosa vietata dallo Statuto dei lavoratori - ma voleva evitare condotte illecite. C'è da dire che la tentazione di concedersi pause non dovute non è arrivata con Internet: a fare da apripista è stato il cellulare. È sempre la Consulta a stabilire che licenziare l'impiegato smartphone-dipendente si può. E non solo quando l'uso eccessivo rappresenta un danno economico per il datore di lavoro, come nei casi di cellulare aziendale. Ma anche quando semplicemente si dedica al telefonino «una parte dell'orario di lavoro», come si legge in una sentenza del Tribunale di Milano del 2006.

Sicuramente i social network hanno messo ancora più in difficoltà chi ha una soglia dell'attenzione bassa. Quello di controllare le notifiche è un gesto talmente sdoganato in ogni contesto che riproporlo anche in ufficio, persino durante una riunione, non desta scandalo. Ma i «social» al lavoro possono essere pericolosi anche in altri modi. Recentemente Facebook è stata la causa di due casi di licenziamento in cui i rispettivi protagonisti hanno creduto di poter affidare a Zuckerberg i propri sfoghi lavorativi. Nel 2012 un'impiegata di Forlì si era lasciata andare a una frase poco elegante sulla sua bacheca pubblica: «Mi sono rotta i c di questo posto di m e della proprietà». Il legale dell'azienda, sfortunatamente, era tra i suoi amici virtuali. Diverso il caso di un sindacalista dipendente di una società di sicurezza, che in una conversazione nel gruppo Facebook del sindacato aveva apostrofato in modo offensivo l'amministratore delegato.

Pochi mesi fa la Cassazione ha confermato il suo reintegro al lavoro, stabilendo che le chat sono «inviolabili», alla stregua della corrispondenza privata. Un ultimo angolo di privacy al sicuro anche dai capi più curiosi.

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