La lunga giornata politica del centrodestra si è aperta con le surriscaldate metafore di Claudio Borghi e si è chiusa con la pacata analisi di Maurizio Lupi. Il primo, nel corso degli interventi del mattino a Montecitorio, si è infervorato al punto da dire usare una metafora più che vivida. «Presidente Conte, lei se ne andrà quando la montagna di guano che è stata accumulata sotto il tappeto sarà così enorme da non poter essere più nascosta» preconizza il deputato leghista. Il leader di Noi con l'Italia, invece, punta il dito contro la troppo vaga missione economica del governo. «È un anno - puntualizza Lupi - che usate l'emergenza come alibi e come stampella. Per rilanciare l'Italia bisogna evitare che tutto ciò che è emergenziale diventi regolarità, che l'assistenzialismo diventi la massima aspirazione di chi ci governa». In mezzo c'è però lo strappo di Renata Polverini, l'ex governatrice del Lazio vota la fiducia al governo e si pone automaticamente fuori da Forza Italia («Mi assumo le mie responsabilità»).
Il centrodestra nel suo complesso esprime riserve di merito sulla gestione economia della crisi sanitaria e di metodo sul lavoro «politico» per ricomporre una maggioranza degna di questo nome. Nel corso della mattina si era nuovamente riunito il vertice della coalizione. Nell'attesa del discorso di Conte, Tajani, Salvini, Meloni, Lupi, Quagliariello sono tornati a confrontarsi sulla crisi di governo. Con loro in collegamento anche il presidente azzurro Silvio Berlusconi. Nessuna stampella al governo. E sempre più convinto giudica il voto come via maestra per risolvere la crisi.
Il timore ora resta quello di una maggioranza che sostituisca «responsabili» e «costruttori» ai senatori di Renzi. Un modo che evidenzia non soltanto la fragilità della maggioranza ma anche l'impossibilità di fare quadrato dietro una visione condivisa.
Nell'attesa delle mosse del Quirinale, i rappresentanti del centrodestra si sono tolti molti sassolini dalle scarpe durante le dichiarazioni di voto.
Il leghista Riccardo Molinari ovviamente non poteva non partire dalle giravolte dello stesso premier capace, a suo dire, in poco più di due anni di votare e promuovere i decreti sicurezza e poi di bocciarli e annullarli con altrettanti decreti. Per poi ricordare che se prima il partito di maggioranza relativa faceva del suo odio verso i voltagabbana una delle bandiere più seducenti tanto da voler chiedere una riforma costituzionale che introduca il vincolo di mandato, ora, nel «peggior trasformismo possibile» si lancia in «un indegno calciomercato».
Nell'elencare le ragioni del no al governo l'azzurra Mariastella Gelmini spiega: «Siamo profondamente europeisti, siamo autenticamente liberali, e ci onoriamo di una cultura socialista che appartiene a molti dei nostri componenti. Ma un socialista non può stare con il ministro Bonafede che ha abolito la prescrizione, e un autentico liberale non riscontra nella politica economica di questo governo nulla che non sia dirigista e statalista».
Il colpo di grazia alla vanità di Conte porta la firma di Giorgia Meloni.
«Conte è perfettamente in grado di assumere la forma che chiede il suo mandante, come Barbapapà, prima di destra, poi di sinistra, poi socialista, prima a favore poi contro l'immigrazione clandestina, prima amico di Salvini, poi di Renzi, qualsiasi cosa pur di rimanere dov'è».A nessuno è sfuggita poi la gaffe istituzionale del premier quando ha parlato di riforma della legge elettorale. «Non siamo in Venezuela, qui la legge elettorale la decide il Parlamento» ha chiosato Molinari.
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