Insulti e minacce di morte a Ignazio La Russa che si è permesso di farsi democraticamente eleggere seconda carica dello Stato, togliendo il posto a compagni e cattocomunisti che dopo decenni su quel cuscino hanno lasciato l'impronta dei loro glutei progressisti. E mal sopportano di dovervi rinunciare.
Eppure c'è forse qualcosa di nuovo oggi nel sole e nulla d'antico, perché ad aprire l'edizione milanese di Repubblica si trova a firma di Massimo Pisa un capitolo di bel giornalismo, quello che sa mandare a gambe all'aria l'ovvio dell'ideologia e la banalità del nero diviso dal bianco. Anzi dal rosso in questo caso, perché a parlare e a ringraziare La Russa è Bruno Tinelli, il fratello di Fausto che con Iaio Iannucci divise una tragica e misteriosa fine in quel cupo 1978.
Ricapitolando. Nel suo primo discorso da presidente del Senato La Russa, velenosamente ribattezzato in questi giorni «Benito» da stampa e politici di sinistra, ha archiviato gli Anni di Piombo, ricordando tre diciottenni milanesi: Sergio Ramelli sprangato a morte dalle chiavi inglesi rosse di Avanguardia operaia e i due militanti di sinistra che frequentavano il centro sociale Leoncavallo e furono freddati da tre misteriosi killer mai scoperti. Un duplice delitto rimasto senza giustizia, come senza colpevoli sarebbe rimasto quello di Ramelli se non fosse stato per la caparbietà di La Russa che divenne l'avvocato di parte civile della famiglia e al lavoro scrupoloso e controcorrente dei giudici istruttori Maurizio Grigo e Guido Salvini che portarono alla condanne dei colpevoli.
E tutto questo si sapeva. Non si sapeva, come rivela adesso Bruno Tinelli dopo aver consultato anche Maria Iannucci sorella di Iaio, che «al contrario di quello che ho letto e sentito in giro, delle tante reazioni indignate, noi non possiamo che essere grati a Ignazio La Russa». E questo perché «oggi, riguardando indietro, non può fare differenza tra un ragazzo morto ammazzato di destra, com'era Sergio Ramelli e uno di sinistra. Erano vite spezzate e famiglie distrutte».
Un grande esempio di come la vita, quando è vera (e spesso lo è quando attraversa una morte) sappia tessere trame che nessun romanziere o sceneggiatore riuscirebbe nemmeno lontanamente a immaginare. E così ci fa anche scoprire, raccontato da fonti non certo sospette, che senza farsi troppa pubblicità, è stato proprio Ignazio «Benito» La Russa a scrivere più volte «a mia madre. L'ha incontrata personalmente, ha continuato a interessarsi a noi, al di là dell'ideologia, di divisioni che oggi no ci sono più». Ecco, «Ignazio la Russa fu uno dei pochissimi».
Ohibò, e quindi? Forse che il male assoluto non ha più il ghigno dei post missini. Che in quel simbolo che in tanti chiedono di eliminare dal simbolo di Fratelli d'Italia ci sia anche un'idea cavalleresca dello scontro politico, la persuasione che in politica non ci siano nemici, ma avversari. E che, piuttosto, i nemici tramino in quelle zone oscure anche dello Stato nella quali si nascondono i veri malvagi che per i propri lordi interessi hanno mandato a morire giovanissimi diciottenni che forse combattevano per una stessa idea.
Quella di un mondo migliore, più giusto e più attento ai loro sogni di adolescenti. La dimostrazione che le barricate non aiutano a conoscersi e a capirsi perché spesso sono solo armi per delegittimare e cercare di abbattere l'avversario. Calpestando anche la morte di tre poveri diciottenni.
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