È un ricordo personale, rassegnatevi, m'importa zero dell'epitaffio storico dell'ultimo sindaco «politico» di Milano. A Pillitteri devo il primo articolo che scrissi sul Giornale, nel 1995: ci arrivo dopo. Lo conobbi perché aveva letto sull'Avanti! una mia inchiesta su un socialista, Renato Amorese, che si era suicidato e che era stato infamato anche da morto. Era l'autunno 1992, io avevo 24 anni ed era un periodo in cui i pilastri che reggevano il mondo andavano a fuoco e, in attesa che il nuovo si affacciasse, miliardi di frammenti insignificanti precipitavano nel vuoto come cartacce dopo un incendio. Il suo studio si trovava in piazza Duomo, due piani sotto Craxi. C'era una segretaria, stanze silenziose e soprattutto c'era Pillitteri immerso in una solitudine impressionante e quasi violenta. Nell'antistanza c'era Gaspare, un siciliano che mormorava qualcosa a occhi chiusi come se pregasse, e invece ripassava cose che voleva tenere solo a memoria. L'inquadratura ricordava la sala da ballo di Shining di Kubrick, mi immaginavo ectoplasmi evanescenti e scontornati che lentamente stagliassero profili di infiniti questuanti, millantatori, cortigiani, postulanti e pennivendoli che poi si dissolvevano. Infine rimanevo solo io, che non feci mai la fila, da Pillitteri, perché non c'era più. Resterà una delle persone più simpatiche che abbia mai conosciuto. Scoprimmo passioni comuni (come i film di Tarkovskij, mattoni che La corazzata Potemkin in confronto era Maccio Capatonda) per poi scivolare ovviamente su Mani pulite.
Io ero disoccupato, ma seguivo l'inchiesta con piste tutte mie, a Pillitteri ogni tanto scivolava qualche risvolto sconcertante sulla Prima Repubblica e anche incredibili dettagli sul magistrato che stava squassando il Paese, Antonio Di Pietro, che lui chiamava «Ninì» perché si erano frequentati allegramente assieme ad altri inguardabili indagati. Io incameravo tracce, parole chiave, mappe, faccende di auto svendute e prestiti a babbo morto, affitti a equo canone, ma lui, Pillitteri, dopo una regolare parentesi sui suoi propositi suicidiari, diceva e non diceva, come se ci fosse un livello superiore a cui non dovevo accedere.
Poi un giorno m'incazzai e gli dissi che la piantasse, che non aveva senso tenersi tutto dentro come se la realpolitik regnasse ancora su quell'ecatombe: che implodesse, che accettasse, chessò, di fare un libro-intervista con me, con domande vere, risposte vere. E lui accettò.
Lavorammo come pazzi, e i primi di gennaio del 1994, ricordo, mi chiamò. «Vieni, vieni» disse tra lo spaventato e il demenziale. Mi mostrò due borse in similpelle da cui estraemmo spille, cravatte, prontuari, un opuscolo firmato da Giuliano Urbani, una bandiera, un foulard, due orologi, due penne, delle coccarde e una cassetta con l'inno di Forza Italia orchestrato da Renato Serio, l'arrangiatore de La donna cannone di De Gregori: se l'avessero scoperto, a sinistra, si sarebbero suicidati in massa come i lemming. Io e Pillitteri rimanemmo un minuto in silenzio. È lungo, un minuto.
Passai mesi alla ricerca di un editore (Pillitteri non osava neanche più alzare il telefono) e alla fine spuntò Newton Compton, ai tempi quasi sconosciuta. E poi, a marzo, Berlusconi vinse le lezioni, perché quei miliardi di frammenti che precipitavano nel vuoto, come cartacce dopo un incendio, non avevano ancora finito di bruciare. Il «nostro libro» uscì, ed era un libro vero, c'erano un sacco di notizie vere: all'inizio non se lo filò nessuno, ma fa niente, io e Pillitteri festeggiammo come bambini. Lui, tre anni prima, si voleva suicidare. Io avevo 26 anni.
Poi il mondo gira. I primi di giugno 1995 appresi che Antonio Di Pietro era stato inquisito a Brescia e Il Giornale mi propose di fare un articolo tipo «io l'avevo detto», sulla base di quanto avevo già scritto nel libro-intervista. Sul Giornale cominciai così. Io sono ancora qui, Pillitteri non c'è più. Io, ogni tanto, andavo ad Hammamet, da Craxi, mentre Pillitteri, che era suo cognato, non potè mai andarci perché aveva il divieto di espatrio. Per Mani pulite ci sono stati imputati condannati in tutti i gradi di giudizio in due o tre anni: i tempi della giustizia sanno correre.
Sergio Cusani e Walter Armanini finirono in carcere, Pillitteri passò un periodo agli arresti ospedalieri e poi ai servizi sociali: era stato condannato a 2 anni e 8 mesi senza che lui avesse mai potuto confrontarsi col suo accusatore, come era possibile prima della riforma dell'articolo 513. Dal 1995, lentamente, ciascuno andò per la sua strada. Ora, se lo immagino, lo immagino che ride. Tutti lo immaginano che ride. Anche adesso. Soprattutto adesso.
- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
- sabato, domenica e festivi dalle ore 10:00 alle ore 18:00.