Quel latino lingua universale serbatoio di storia e di memoria

Le pagine del Vangelo accarezzate dal vento, sediari e guardie svizzere: i simboli di un'istituzione senza tempo

Quel latino lingua universale serbatoio di storia e di memoria
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Quando, sul finire, il vento si è messo ad accarezzare le pagine del Vangelo posto sulla bara, si è avuta la conferma, più che la sensazione, che quella a cui da spettatori si stava assistendo non fosse una cerimonia funebre, ma un saluto affettuoso e mai triste, malinconicamente gioioso.

Ce lo aveva fatto capire fin da subito il novantenne dalla voce sicura e il passo fermo che officiava il rito, ovvero il cardinale Giovanni Battista Re, con un'omelia sobria, dove però di papa Francesco c'era tutto, propositi e speranze, ma raccontati con il tono del vecchio amico rimasto sulla terra e che si rivolgeva al vecchio amico appena volato in cielo chiedendogli che ora fosse lui, dall'alto, a pregare per le anime dei viventi

Sotto un cielo azzurro che teneva le nuvole lontane all'orizzonte, il sole di Roma illuminava il travertino di San Pietro e la gigantesca scacchiera colorata che dal sagrato si estendeva ai colonnati: il porpora dei cardinali, il nero delle autorità laiche, il bianco-rosso e il viola dei religiosi, il variopinto multicolore dei fedeli, un giorno di primavera imbevuto di luce.

Il resto lo faceva il solenne suono di un latino ora scandito ora salmodiato, quel latino che resta la lingua universale di una chiesa universale, serbatoio di storia e di memoria. E poi i rintocchi delle campane, il piccolo corteo dei rappresentanti delle chiese ortodosse in un profluvio di oro-argento e di porpora, a recitare il loro saluto in greco e in arabo, le uniformi delle Guardie svizzere posizionate ai quattro lati della bara quando era ancora all'interno della basilica, il lucido nero dei quattordici sediari che l'avevano portata all'esterno, sul sagrato.

Mai come ieri Roma è tornata a essere quella caput mundi di un mondo sempre più bisognoso di pace e di certezze, fatto per gente di buona volontà, solidale nella sua ricerca di un bene comune. E mai come ieri la piazza dei fedeli, un arcobaleno di tutte le età, giovani e anziani, uomini e donne, bambini, aveva una compostezza scevra da ogni eccesso, pacificata più che addolorata nei volti che le riprese televisive ti portavano alla vista, l'ultima lezione che un papa come Francesco è riuscito a dare al suo gregge, quel gioite con me perché vado da Nostro Signore.

Le stime hanno parlato di oltre 200mila persone venute a dare l'abbraccio finale al Pontefice, quando il feretro è transitato dalla Porta della Preghiera per essere deposto sul sagrato. Ma quando poi, uscito dalla Porta del Perugino, il corteo funebre si è incanalato in auto, ma a passo d'uomo, lungo via della Conciliazione, i Fori imperiali, via Labicana e su ancora, sino a Santa Maria Maggiore, è stato un assieparsi dell'intera città lungo strade, palazzi, monumenti, rovine di una capitale scintillante di sole, ultima dimora terrena di chi a Roma era arrivato dai confini del mondo, unica dimora senza confini da dove abbracciare l'intero mondo.

Ps. L'imponente presenza di capi di Stato, leaders, delegazioni e uomini politici può anche apparire l'omaggio ipocrita che il vizio rende alla virtù.

E tuttavia, l'immagine televisiva di quelle due sedie all'interno di San Pietro dove l'americano Trump e l'ucraino Zelensky sono soli e a colloquio resterà come un'immagine storica di tempi duri, di odi tenaci e di stragi, di prevaricazioni e di sacrifici esemplari. Ultimo, ma non per ultimo fra questi, quello un Papa che si è speso sino alla morte perché una scintilla di pace rimanesse in vita.

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