Tutti sottoscrivono l'operazione verità del ministro Giovanni Tria. Giusto avere ridotto ai minimi termini la previsione sul Pil del 2019; inattaccabile quando limita al massimo la stima dell'impatto delle misure prese dal governo sulla crescita dell'economia. Ma anche sulla conseguenza più probabile di questa situazione il consenso si sta allargando.
In sintesi, è impossibile, a questo punto evitare l'aumento dell'Iva. Magari parziale, limitato ad alcuni beni come trapela da qualche giorno da settori del governo. Oppure con passaggi di merci da una aliquota (quella intermedia agevolata al 10%), ad un altra (quella ordinaria oggi al 22%). Comunque la si metta è una stangata sui consumatori.
Ieri il presidente di Confindustria Francesco Boccia ha calato le carte su una posizione storica di viale dell'Astronomia. A favore di «una vera riforma fiscale che agevoli i cosiddetti produttori, imprese e lavoratori, quindi una operazione macro che non riguardi solo le clausole Iva». Giusto fare scattare le clausole di salvaguardia che prevedono l'aumento dell'Iva? «Evidentemente una parte sì. Una parte dei nostri settori non l'amerebbe, quelli legati al largo consumo, ma con un equilibrio sull'attenzione al mondo produttivo e alle fasce cosiddette deboli potrebbe essere una riforma che ha il suo perché».
Di parere opposto Confcommercio. «Non riteniamo molto prudente aprirsi oggi a qualsiasi ipotesi di incremento di imposte, seppure qualificato come parte di una più ampia riforma fiscale, in quanto le condizioni del quadro economico interno e internazionale richiedono di rassicurare famiglie e imprese subito sul completo disinnesco dei possibili incrementi delle imposte indirette».
Gli uffici del ministero dell'Economia stanno da tempo lavorando a una soluzione che possa apparire «equilibrata» e quindi accettabile dalla maggioranza M5s e Lega. Le ipotesi sono appunto quelle di inasprire l'imposta solo su alcune merci. Prodotti inquinanti o di lusso. Oppure lo spostamento di intere categorie da un'aliquota ad un altra, facendo salve solo quelle che rientrano in quella minore al 4% che si applica a beni come il pane.
Obiettivo: reperire almeno in parte i 23 miliardi di euro già contabilizzati nel Def come aumenti Iva. Il quadro dei conti pubblici ieri è emerso chiaramente nel corso del secondo giorno di audizioni parlamentari sul Def alle commissioni Bilancio riunite di Camera e Senato.
Senza aumento dell'Iva, il deficit «si collocherebbe meccanicamente al 3,4 per cento del prodotto nel 2020, al 3,3 nel 2021 e al 3,0 nel 2022», ha spiegato Eugenio Gaiotti, capo del dipartimento Economia e statistica di Bankitalia. Un quadro inaccettabile, che potrebbe aggravarsi se lo spread, e quindi la spesa per interessi, rimanesse su livelli alti come quelli attuali. Spazi di manovra nulli anche per la Corte dei Conti, che mette in guardia da «interventi disorganici» sul fisco, che rischiano di destabilizzare il sistema e punta il faro sul reddito di cittadinanza, che rischia di non centrare i suoi obiettivi.
L'Ufficio parlamentare di bilancio ha ricordato come nel 2020 serviranno 25 miliardi, che saliranno «a circa 36 miliardi nel 2021 per raggiungere circa 45 miliardi a fine periodo» senza contare le
«ulteriori misure compensative» per la flat tax e la semplificazione del sistema fiscale. In altre parole, la flat tax è inimmaginabile senza aumento dell'Iva. Ma anche senza una riforma fiscale generosa, sarà difficile evitarlo.
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