Comunque vada a finire, va detto che ce l'ha messa tutta. Pur di restare in sella, Giuseppe Conte si è perfino trasformato da avvocato degli italiani a pubblico ministero anti Salvini. Il premier ha preparato il discorso della vita in cinque giorni di ritiro assoluto, durante il quale ha incassato il «mandato di Bibbona», l'investitura di Grillo e Casaleggio per sganciarsi definitivamente dalla Lega e mettersi a disposizione del Pd. E il premier ha eseguito, supportato da una raffica di elogi grillini e presentando come pegno d'amore alla sinistra la testa dell'ormai ex vicepremier. E poi lanciando parole chiave gradite al Pd: Europa, ambiente, sostenibilità, solidarietà e perfino la citazione di un classico filosofico della sinistra come Habermas.
Eppure potrebbe non bastare. L'unica certezza emersa ieri dal lungo dibattito in Senato è la fine della prima era gialloverde, sancita da Conte con una parola che non lascia spazio a equivoci: «Dimissioni». Il premier le annuncia al Senato e poi le consegna nelle mani del Presidente della Repubblica: crisi reale dopo giorni di crisi virtuale.
La speranza dei 5s è di evitare a ogni costo le urne, e il premier argomenta: «Far votare i cittadini è l'essenza della democrazia. Sollecitarli a votare ogni anno è irresponsabile». Il presidente del Consiglio ha anche indicato una possibile formula, citando la nuova presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen, alla cui elezione il M5s ha contribuito con Pd e Forza Italia. «Sforziamoci di cogliere tutte le opportunità che abbiamo davanti, -ha suggerito- piuttosto che contrastare queste nuove sfide in modo sterile». Non servono interpretazioni.
L'appello ad andare avanti è stato preceduto da un attacco a Matteo Salvini così virulento da rivelare la mano della comunicazione 5 Stelle. Dopo aver stretto la mano cavallerescamente all'ormai ex vice premier leghista, Conte ha dismesso il solito abito da mediatore e gli ha rovesciato addosso una valanga di accuse, ricalcando scientificamente tutte le accuse mosse dalla sinistra al leader del Carroccio. Conte ha raccontato un Salvini eversivo per l'appello alla piazza, autoritario per la richiesta di «pieni poteri», dotato di scarso senso delle istituzioni, assente sul fronte della legge di bilancio e prevaricatore del ruolo degli altri ministri, reticente sulla questione dei rapporti tra Lega e Russia, inadeguato al ruolo di ministro e incapace «di contenere la foga comunicativa». Una requisitoria declamata ignorando palesemente la contraddizione con la parte del discorso in cui il premier ha rivendicato l'operato del suo governo, come se Salvini non ne avesse fatto parte, con il paradosso di rinnegare il leader leghista ma non i provvedimenti voluti da lui e controfirmati da Conte.
Uno sforzo dialettico che potrebbe rivelarsi inutile. Casaleggio e Grillo vogliono Conte come nuovo volto del M5s al posto di Di Maio (che ieri esibiva un sorriso pietrificato) ma il Pd è spaccato: Renzi vuole il governo giallorosso, Zingaretti preferirebbe andare al voto e alza l'asticella rimproverando a Conte di non aver abiurato le politiche gialloverdi. Accuse a cui il premier tenta in serata di replicare un po' goffamente, dicendo che le critiche, per lealtà, le avanzava in privato, incluse quelle sul cavallo di battaglia di Salvini, l'immigrazione.
La Lega in extremis gioca l'ultima carta ritirando la sfiducia, ma Conte la snobba («ora ci vuole coraggio») e chiude la sua giornata più lunga al Colle
come previsto. Ma con meno certezze sul suo futuro di quanto aveva sperato, come testimoniano gli scatoloni che scaramanticamente fa preparare in serata a Palazzo Chigi, anche se rimarrà in carica per gli affari correnti.
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