Il rimpasto di governo è un rassicurante classico dell'estate, come i vecchi film nell'arena.
E proprio come quei film, al momento si tratta di purissima fiction: di cambiare ministri, il premier Conte non vuol neppure sentir parlare, e ha rinviato questo dossier, come qualsiasi altro, all'autunno (di un anno imprecisato). Anche perché l'uomo di Palazzo Chigi ha annusato un'arietta che non gli piace per niente, e si è convinto che dietro il lavorio di alcuni suoi alleati, che a parole dicono di voler rafforzare il governo, ci sia in realtà un nuovo tentativo di fargli le scarpe. I soliti sospetti sono Gigino Di Maio e Matteo Renzi, che si sentono spesso e che - teme Conte - tifano per un governo Draghi: «La verità - dice un'esponente di punta del Pd - è che il rimpasto è un grimaldello per ottenere due obiettivi: l'allargamento della maggioranza e la sostituzione del premier. Non se ne parla prima di ottobre, ma se elezioni e referendum andranno male sarà difficile evitare contraccolpi». Ma nel mirino del premier ci sono anche il silente Dario Franceschini e lo stesso segretario dem Nicola Zingaretti, che non sa come uscire dalla trappola del referendum sul taglio dei parlamentari e che ha pessimi sondaggi sulle regionali, e potrebbe avere la tentazione di rovesciare il tavolo prima di essere giubilato dai suoi, se i cattivi pronostici su Liguria, Puglia e Marche si concretizzassero.
La coalizione rossogialla fa acqua da tutte le parti, l'ultimo casus belli è il decreto agosto: il compromesso sui licenziamenti non soddisfa i renziani con Marattin che avverte: «Il voto favorevole di Iv è condizionato a misure come lo slittamento delle tasse di novembre per gli autonomi». Nei partiti di maggioranza infuriano le guerriglie di bande e correnti, gli esclusi dal primo turno del Conte bis sono ansiosi di farsi un giro ministeriale prima che sia troppo tardi.
Raccontano che la voce di un ingresso al governo del vicesegretario Pd Andrea Orlando sia stata fatta circolare dal Nazareno per lanciare un avvertimento al capo-delegazione Franceschini, che «su nomine e scelte di governo non aiuta il partito». Zingaretti non ha più alcuna aspirazione ministeriale, e accusa chi gliele attribuisce di volerlo «far fuori». I gossip su Maria Elena Boschi alla Difesa vengono attribuiti al malanimo di Matteo Renzi contro il suo ex braccio destro Lorenzo Guerini, l'attuale titolare che è rimasto nel Pd.
In casa Cinque Stelle poi la guerra per bande è totale: dopo il tentato assalto della corrente Di Battista a Carmine Spadafora (che ovviamente resta abbarbicato alla poltrona dello Sport), c'è chi vorrebbe far fuori il potente Alfonso Bonafede dalla Giustizia e chi giura che salterà la testa di Nunzia Catalfo al Lavoro. Quasi tutti aspettano la débâcle della riapertura delle scuole per togliersi dai piedi la disastrosa Lucia Azzolina e il suo rossetto rosso-fuoco, mentre in casa dem vacilla Paola De Micheli alle Infrastrutture (e c'è chi già la vede sostituita con il capogruppo Graziano Delrio, che per quel ministero è già passato).
Poi ci sono i dicasteri pesanti che fanno gola: il Viminale, ad esempio, attira molto Gigino Di Maio, il quale - piuttosto digiuno di geopolitica e di lingue (italiano incluso) - ha scoperto che alla Farnesina non gli fanno battere chiodo, per evitare incidenti diplomatici. E che comunque la gestione delle relazioni internazionali passa altrove (Chigi e soprattutto Colle), e a lui fanno solo tagliare i nastri.
Mentre invece, osservando le imprese del suo ex dioscuro Matteo Salvini, Di Maio si è fatto l'idea che all'Interno si possa lavorare assai poco e ottenere lo stesso enorme visibilità, bloccando di tanto in tanto qualche gommone di profughi: niente male.
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