
L'isolamento della Cina a livello mondiale sarebbe il vero obiettivo della imposizione di dazi a quasi tutti i partner commerciali degli Stati Uniti. Secondo il ben informato Wall Street Journal, nei negoziati con oltre 70 Paesi interessati dalle barriere tariffarie imposte da Trump i funzionari americani pretenderanno limitazioni nel coinvolgimento di Pechino nelle loro economie in cambio di sconti sui dazi. Obiettivo principe, intaccare la forza dell'economia cinese così da costringere Xi Jinping a contrattare con Donald Trump, quando e se il momento verrà, da una posizione più debole.
Viene così a delinearsi una strategia americana a tal punto aggressiva da potersi definire ricattatoria. Il suo artefice viene indicato nel segretario al Tesoro Scott Bessent, che scrive il quotidiano economico newyorkese ne ha discusso a Mar-a-Lago con il presidente lo scorso 6 aprile. Con le sue pressioni, Trump vuole obbligare i Paesi terzi a scegliere di fatto tra gli Stati Uniti e la Cina. Si aspetta che i Paesi sotto dazi Usa impediscano alla Cina di eludere attraverso di loro quelli assai più alti impostigli in queste due settimane, e che presto cominceranno a danneggiare l'economia del Dragone. Bessent minaccerà dunque gli emissari dei governi di mezzo mondo di strangolarli con i dazi se non vieteranno a Pechino di spedire merci attraverso i loro territori, alle imprese cinesi di installarvisi, e in ogni caso pretenderà che s'impegnino a non acquistare prodotti made in China a basso costo.
Quasi nessun Paese verrebbe escluso dal disegno aggressivo anti cinese di Trump. È evidente che in un simile contesto gli spazi per il dialogo tra Washington e Pechino precipitano verso lo zero. Xi Jinping, infatti, è consapevole della portata epocale della sfida che vede il suo Paese nel mirino, ma non intende piegarsi. Questo non significa però che la risposta di Pechino sarà una corsa a testa bassa verso il confronto aperto: la strategia di Xi è più sottile, e si sforza di mantenere fermi alcuni punti fondamentali.
Il primo è la pretesa categorica di rispetto da parte della Casa Bianca: a Pechino vivono lo stile prepotente di Trump nei loro confronti come intollerabilmente offensivo. Senza rispetto, ripetono i portavoce del governo cinese, non ci sarà dialogo. Il secondo punto è la ricerca affannosa di riferimenti chiari a Washington per poter impostare una trattativa. A Pechino, dove sono abituati ad agire razionalmente, faticano a raccapezzarsi: a volte Trump sembra voler puntare sul «buon rapporto personale col presidente Xi», altre volte usa un linguaggio completamente diverso e ostile. Per non parlare di funzionari e collaboratori della Casa Bianca: in particolare la figura del vicepresidente JD Vance, che di recente ha ad esempio parlato dei contadini cinesi in termini razzisti e sprezzanti, è considerata un problema se non un ostacolo da aggirare.
Prima di rassegnarsi all'evidenza di una volontà americana di rompere le ossa all'economia cinese, e pur ribadendo di non temere una guerra commerciale aperta con gli Usa, Xi cerca ancora di offrire un certo livello di disponibilità. Ha cambiato il suo rappresentante per i negoziati sul commercio internazionale e offre perfino a mezza bocca una specie di promessa di non attaccare Taiwan «se non saremo provocati».
Intanto prosegue il suo trionfale tour nei Paesi del Sud-Est asiatico investiti dallo tsunami daziario americano: dopo il Vietnam, ieri è stato in Malaysia, domani sbarcherà in Cambogia.
Punta a far passare in secondo piano i serissimi problemi causati nella regione dall'espansionismo cinese in nome della comune resistenza alla prepotenza di Trump, che gli sta di fatto fornendo un prezioso assist geopolitico.
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