Una lezione e tre notizie. La lezione è per il disgraziato femminismo italiano, le notizie, invece, sono queste: 1) Cecilia Sala è libera, forse già lo sapevate; 2) Le donne italiane sono vive, e la loro emancipazione sta facendo un figurone internazionale visto che è donna Cecilia Sala, che faceva e farà un mestiere un tempo riservato soprattutto agli uomini; è una donna Giorgia Meloni, il presidente del Consiglio che ha evidentemente fatto tutto il necessario perché l'ostaggio, che era un ostaggio, fosse liberato presto e bene, non disdegnando un celere viaggio negli Usa che è stato scambiato per un bacio della pantofola e invece ha portato a casa un risultato; di passaggio è donna anche Elisabetta Belloni, che è dimissionaria dal vertice dei Servizi segreti e forse c'entra poco con la liberazione della Sala, ma resta pur sempre la prima donna ad assumere la leadership della nostra intelligence.
C'era la terza notizia, eccola: 3) il femminismo italiano è morto e sepolto, almeno nell'accezione universalistica che ne aveva accolto la nascita: che era quella di un movimento che voleva difendere i diritti delle donne (diritti, non desideri) prescindendo dalla loro etnia, nazionalità, classe sociale, idee politiche e insomma senza gerarchie tra le categorie da difendere.
Ora non più. Il silenzio su Cecilia Sala dei movimenti transfemministi intersezionali (nell'era woke si chiamano così) non sono solo vigliaccheria, imbarazzo, doppiopesismo, faziosità politica: è proprio scritto nella ragione sociale delle 1047 micro organizzazioni censite in dicembre da Semia, primo fondo femminista nato per finanziare non dei progetti in direzione di un'ulteriore emancipazione delle donne (tutte le donne) bensì una «parità di genere e diritti di bambine, ragazze, donne e persone trans e non binarie». Che non è lo stesso, e questo va spiegato così come si referta un'autopsia.
Va spiegato il perché di Cecilia Sala, a loro, interessava zero, e perché tra i loro commenti sui loro social, ieri, si leggeva che «Santa Gioggia ha fatto il miracolo televisivo» (Maria Meo) o che «il Governo chiedeva toni bassi Non volendo riconoscere agli italiani ed italiane voce in capitolo sulla liberazione di Cecilia Sala»; un commentatore, invece, esponeva il curriculum del padre di Cecilia e il suo «legame con le oligarchie finanziarie Usa e i loro galoppini italiani che si sono riempiti le tasche». Ma raccontiamolo, il morto, refertiamo il transfemmismo intersezionale di «Non una di meno», «Se non ora quando?» e compagnia selettiva: è un neofemminismo che si muove come un sol uomo (scritto apposta) nel sottoporre a pesi diversi alcune selezionate categorie di donne; massima rilevanza a quelle non propriamente caucasiche (nere) di ceto e nazionalità ex colonizzata, vittime apparenti di segregazione anche culturale e ovviamente di genere.
La graduatoria, a scendere, sottopone a curanza distinta una vittima la quale (picchiata, stuprata, uccisa, in lotta per i propri diritti) sia stata oppressa da un connazionale culturalmente affine oppure no, in Italia o all'estero: massima allerta quindi per maschi bianchi che commettano violenza su una bianca o, peggio, nera e dintorni; citazione trascurabile o d'ufficio, invece, per le disperate lotte delle donne iraniane (sì, iraniane, come Cecilia Sala cercava di raccontare) o afghane, vessate da regimi teocratici.
Sostanziale indifferenza, poi, per stupri compiuti da immigrati verso conterranee o donne bianche o commessi da islamici (ricordate il caso Saman?) mentre, ultime in graduatoria, compaiono le donne bianche, benestanti e
sessualmente tradizionali: conniventi col suprematismo bianco. Ultimissimo posto in graduatoria, di conseguenza, per le donne bianche e israeliane, stuprate o imprigionate. Cecilia Sala era bianca e imprigionata. Bastava.
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