Così la "ditta" Vanzina ha messo in commedia l'Italia arciborghese

Nati sotto la stella di Steno, i due fratelli si sono affrancati dal padre. Ma non sempre capiti...

Così la "ditta" Vanzina ha messo in commedia l'Italia arciborghese

A lungo Carlo e, naturalmente, Enrico Vanzina, furono soprattutto «i figli di Steno», a sottolineare una discendenza e insieme, come dire, un'affettuosa diminutio. Poi, e anche qui da molti anni, Steno era finito con il diventare «il papà dei Vanzina», un passaggio di consegne e insieme un riconoscimento, il prendere atto non solo e non tanto del loro essere divenuti cinematograficamente adulti, ma dell'essersi trasformati in marchio, un doc riconoscibile, «la vanzinata» che prendeva il posto della «mandrakata» di Febbre da Cavallo del padre, uscito lo stesso anno, il 1976, dell'esordio del figlio Carlo alla regia.

Nel passaggio di consegne c'è però molto di più di un fatto anagrafico, comunque accompagnato dall'essere accomunati, padre e figli, in quella sottovalutazione dell'alto artigianato cinematografico con cui la cultura del sopracciò italiana snobba sempre il film popolare, di cassetta, per ritrovarsi in seguito e immancabilmente a celebrarlo come imprescindibile documento di costume. È successo infatti con Steno, è accaduto con Carlo e, naturalmente, Enrico (che tristezza non poterli più nominare insieme...), le cui pellicole, viste oggi, raccontano il nostro «come eravamo» meglio di un rapporto Censis. Il di più rimanda proprio alla decadenza dell'Italia, come società, come cultura, come tenuta civile e ideologica. Vediamo di spiegarci meglio, prendendo spunto proprio da quanto Steno, ovvero Stefano Vanzina, raccontò in un'intervista che aveva come tema Leo Longanesi, suo compagno, nel 1944, in quella trasferta clandestina oltre il fronte di guerra e fino a Napoli, a cui aveva preso parte anche Mario Soldati: «Che tempi! Allora Mario Pannunzio (il futuro direttore del Mondo) faceva l'assistente in un film di cui io ero l'aiuto regista e andava a prendere le sigarette a me e a Freda... Lo dico solo per far riflettere sul livello e le persone che facevano del cinema». Ecco il mondo di Steno comprendeva oltre quei nomi citati, Zavattini e De Sica, il primo Fellini e Totò, Flaiano. Se volessimo allargarlo e andare a gettare lo sguardo sulla letteratura ufficiale, quella dello Strega, per intenderci, vedremo che a concorrere al premio nel 1959, quando Steno è un quarantenne e i suoi figli vanno ancora alle elementari, ci sono Il Gattopardo di Tomasi di Lampedusa, che poi vincerà, La casa della vita di Mario Praz, Primavera di bellezza di Beppe Fenoglio, Una vita violenta di Pier Paolo Pasolini, Il ponte della Ghisolfa di Giovanni Testori, Il povero Piero di Achille Campanile. Vogliamo fare un paragone con l'oggi?

Ecco Carlo e, naturalmente, Enrico Vanzina, erano figli di quell'Italia lì, nati nei Cinquanta di un boom non ancora scoppiato, cresciuti in un Paese ancora povero ma bello, cialtrone eppure dignitoso, pieno di gioia di vivere, gonfio di talenti. Crescendo, quel mondo e quell'energia l'hanno vista svaporarsi fra le mani, e non per colpa loro, isterilirsi la creatività, prendere il sopravvento la burocrazia mediocre e la corruzione istituzionalizzata. Ciò che è mancato ai figli, insomma, non è stata la genialità paterna, ma il venir meno di quell'Italia che tale genialità rendeva possibile, le amicizie, gli incontri, l'ansia di fare, la voglia di crederci. Hanno dovuto lavorare con quello che c'era intorno a loro, e che in buona parte era mediocre, e il fatto che siano comunque riusciti a girare film che reggono a distanza di tempo testimonia, se si vuole, una superiorità alle capacità paterne. Far ridere con Totò era una passeggiata, farlo con Jerry Calà è un'impresa. L'altra cosa ereditata da quel padre e da quel mondo, è stata per Carlo e, naturalmente, per Enrico, l'eleganza borghese del non prendere parte, dello stare al proprio posto, del non manifestare, non firmare, non gridare.

In Steno era il frutto dell'apotismo prezzoliniano quale antidoto all'ubriacatura della retorica fascista, nei figli è stato il risultato del buon gusto e dell'educazione ricevuta, una sorta di imprinting a cui si è aggiunto il fastidio congenito per il generone, le starlette e le finte bionde da un lato, l'impegno un tanto al chilo dall'altro, il «de sinistra alla vaccinara» della cinematografia romana, da loro frequentata per forza maggiore, ma senza mai farne parte ed evitando di finirci a cena, Bandiera rossa, la panzanella, la coratella, la sora Lella...

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