Roma Eccola la longa manus di Renzi sul governo del suo successore, arriva con la memoria depositata dall'Avvocatura di Stato che boccia il referendum sul Jobs Act. Il quesito sull'articolo 18 sarebbe «inammissibile», perché avrebbe «carattere surrettiziamente propositivo e manipolativo». Non solo. In caso di esito positivo del referendum, l'abolizione dei voucher e delle disposizioni sui limiti alla responsabilità di appaltatore e appaltante (riguardo le violazioni nei confronti del lavoratore) condurrebbero «ad una condizione di incertezza normativa». A qualche giorno dall'11 di gennaio, data in cui la Corte Costituzionale dovrebbe pronunciarsi sull'ammissibilità dei quesiti contro la riforma, arriva la stroncatura da parte dell'organo che rappresenta la presidenza del Consiglio. Ovvero, Paolo Gentiloni. Nel discorso con cui si presentò alle Camere per chiedere la fiducia, Gentiloni parlò di obiettivi ambiziosi sul rilancio dell'occupazione e sulla crescita. Salvo un attimo dopo, rivendicare la continuità del suo esecutivo con quello del predecessore, anche a costo di difendere un Jobs Act che non ha avuto, dati alla mano, alcun effetto in termini di crescita e occupazione.
È questa la contraddizione su cui nasce il suo stesso esecutivo, a metà fra una apparente discontinuità e una costante fedeltà a quello del suo predecessore. Votare sul Jobs Act, significherebbe far slittare di almeno un anno la data delle elezioni politiche. E Renzi, non può permettersi il secondo tempo di una batosta elettorale, anche più pesante di quella del 4 dicembre, per questo preme per andare a elezioni al più presto. In caso di ok al referendum, la Corte Costituzionale fisserebbe la data tra il 15 aprile e il 15 giugno, salvo appunto non vengano indette le elezioni. Il cortocircuito è tutto qui, e rischia di aprire uno scontro lacerante nella sinistra. Più di tre milioni di firme, che chiedono di ripristinare l'articolo 18 e cancellare i voucher, non sono pochi. E Gentiloni lo sa. Sa anche che l'unica strada sarebbe quella di modifiche le norme e disinnescare la consultazione. Ma significherebbe sconfessare il Jobs Act. Senza considerare che a rimetterci mani sarebbe il suo stesso autore, cioè Poletti. Il quale, non a caso, a metà dicembre se n'è tirato fuori dicendo di ritenere «probabile» andare a elezioni prima del referendum. D'altro canto, la spaccatura è assicurata.
Se da un lato, Gentiloni vorrebbe dissociarsi dalla guerra dichiarata da Renzi al sindacato della Camusso e mettere una toppa sulla polemica feroce con buona parte del mondo Dem, dall'altro lato deve fare i conti con un PD che certamente non ha intenzione di metterci la faccia e promuovere un'altra battaglia politica nel Paese, nonostante si tratti di difendere uno dei cavalli di battaglia di Renzi. Il referendum sul Jobs Act era la spada di Damocle sul governo Renzi. Ed è la bomba a orologeria sotto la poltrona di Gentiloni.
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