Spunta il vero, possibile, paziente zero. C'è una cartella clinica datata 17 febbraio 2020 che il Giornale ha potuto solo visionare in cui si parla di sintomi come «dispnea», «tosse», «febbre», «versamento pleurico» e «sfumati addensamenti parenchimali, con aspetto a vetro smerigliato, nel polmone sinistro» emersi dopo una Tac il 28 gennaio. È di un cinese ricoverato nell'ospedale di Seriate il 26 gennaio. Non gli è mai stato fatto alcun tampone, eppure fino proprio a quel giorno le circolari ministeriali lo prevedevano, come ha confermato il professor Fabrizio Pregliasco ieri sera alla trasmissione Fuori dal Coro su Retequattro, non solo per chi tornava dalla Cina ma anche per sintomi dubbi riconducibili a Sars. È solo il 26 gennaio che i parametri sono stati modificati dal ministero, limitando i sospetti a chi veniva da Wuhan. L'uomo era già sintomatico, dunque potrebbe essersi contagiato intorno al 10 gennaio. Grazie al coraggio dell'anestesista Annalisa Malara di rompere il protocollo per il cosiddetto Paziente 1 Matteo Maestri soltanto il 20 febbraio si scoprì che il Covid era scoppiato. Ma in realtà il virus già circolava in Italia (a settembre 2019, secondo quanto disse nel maggio 2020 al Giornale il presidente dell'Aifa Giorgio Palù).
È un altro tassello dell'inchiesta per epidemia colposa della Procura di Bergamo, che aspetta la relazione del professor Andrea Crisanti per chiedere i rinvii a giudizio: tra i possibili destinatari ci sarebbero il ministro della Salute Roberto Speranza, i vertici del ministero della Sanità, del Cts e di Regione Lombardia e naturalmente l'ex numero due Oms Ranieri Guerra, coinvolto nell'inchiesta per la relazione Oms firmata dal ricercatore Francesco Zambon, (sparita poi diventata colonna portante del dossier in mano ai pm) come si sa da qualche mese, non senza qualche frizione tra l'organismo internazionale e i magistrati per la fuga di notizie.
Ma un altro elemento può dare ulteriori accelerate alle indagini di Bergamo e alle altre inchieste in corso sulla pandemia. C'è infatti una sottile linea rossa che le unisce. Oggi sappiamo che su circa due miliardi di mascherine arrivate, già usate e circolanti, almeno 700 milioni (quelle sequestrate) erano inutilizzabili, per non dire dannose. La fornitura in fretta e furia di mascherine (come quelle Fca) e dispositivi di protezione si è resa necessaria per l'assenza di un piano pandemico aggiornato, sebbene già quello del 2006 ne prevedesse uno stoccaggio preventivo. Insomma, si è rastrellato quel che si poteva, senza badare all'effettiva bontà dei dispositivi. Il tutto grazie a una speciale deroga prevista dal governo di Giuseppe Conte per le cosiddette «mascherine di prossimità», quelle da utilizzare per strada e negli ambienti di lavoro, non in ospedale. Per colpa dell'emergenza, questo è il sospetto di alcuni magistrati - imbeccati a quanto risulta al Giornale da un whistleblower molto informato - molte mascherine sarebbero state sdoganate, ancorché con una marcatura CE inidonea, a fronte di una semplice autocertificazione. Il che è come «sospendere» il codice penale con un atto amministrativo. Una sottovalutazione che potrebbe aver inevitabilmente amplificato il contagio anziché contenerlo. L'Italia infatti ha pagato un prezzo altissimo: con i 72 decessi di ieri abbiamo superato i 130mila morti (poco più di 4mila i nuovi positivi) anche se le terapie intensive sono in calo. E la ragione potrebbe essere non solo nel pasticcio sui tracciamenti ma probabilmente nell'interpretazione alla speciale «deroga alle normative europee e nazionali» prevista agli articoli 15 e 16 del decreto Cura Italia del 17 marzo 2020.
Gli affari sporchi, le strane commesse con la Cina (vedi i respiratori fallati della società che orbita nella Fondazione cinese di cui è vicepresidente Massimo D'Alema) e le ruberie già oggetto di inchieste hanno fatto la differenza. Sulla pelle di chi è morto e invoca giustizia. A costo di portare alla sbarra un intero governo.
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