Un cartellino giallo, quasi arancione, al crepuscolo di una carriera lunga 40 anni fino a ieri impeccabile. «A cinque mesi e 13 giorni dalla pensione ho capito molte cose, da quando sono tornato dall'Aja sapevo che in Italia dentro la magistratura il successo non viene perdonato e il merito non riconosciuto. Certamente non alle persone libere, autonome e indipendenti come me», risponde al Giornale un Cuno Tarfusser amareggiato, ma per nulla abbattuto, per la censura comminata dalla Prima commissione del Csm per aver «violato il regolamento organizzativo della Procura generale di Milano» di cui è sostituto. Galeotta la richiesta di riaprire il processo per la Strage di Erba - per il quale sono stati condannati all'ergastolo Olindo Romano e Rosa Bazzi, di cui si discuterà venerdì a Brescia - presentata senza passare dalle vie gerarchiche.
C'è una frase (profetica) di Giovanni Falcone che campeggia nel suo ufficio: «Tenteranno di eguagliarti, e proveranno a superarti, ma quando non ce la faranno cercheranno di sporcarti». «Rifarei mille volte quella richiesta, per la centralità del principio di presunzione non colpevolezza di cui l'ultimo comma dell'articolo 24 della Costituzione, che prevede la possibilità della riparazione agli errori giudiziari - sottolinea davanti al Csm - Io scorretto con il Pg Francesca Nanni? Mai, per educazione prima ancora che per dovere». La colpa che invece Palazzo de' Marescialli riconosce a Tarfusser è quella di non aver informato il suo superiore. Ma la Nanni non avrebbe mai risposto alle sue sollecitazioni. Treccentotrentatre giorni di silenzio nonostante un pressing confermato dalle mail depositate al Csm. «Sono stato ignorato, l'ho trovato francamente scorretto e umiliante», dice il sostituto Pg nella sua dichiarazione spontanea alla Prima commissione in cui cita persino Indro Montanelli.
Anche se la Nanni sembra averla spuntata, dall'audizione di Tarfusser che ne ricostruisce l'operato ne esce comunque malissimo. Avrebbe trattenuto la richiesta di revisione per quattro mesi, il 19 luglio dice alla stampa che non la trasmetterà. Poi si smentisce due volte: quando il 26 luglio trasmette effettivamente la richiesta (due giorni dopo l'ennesima mail di Tarfusser, senza risposta) con una irrituale nota «riservata» e un parere negativo. E quando, dopo l'ok di Brescia alla revisione del 9 gennaio scorso, si corregge parlando di «riapertura opportuna». «E qual è la violazione di cui mi sarei macchiato? Se la Nanni mi avesse risposto saremmo qui?», chiede Tarfusser al presidente Fabio Pinelli, costretto a un verdetto che puzza di vittoria del Sistema denunciato nel libro di Alessandro Sallusti da Luca Palamara (Tarfusser non fa parte d nessuna corrente, la Nanni sì...) e che archivia tutti i buoni propositi sull'autonomia dei singoli magistrati rispetto al capo, principio che a suo dire avrebbe dovuto caratterizzare questa consiliatura.
Il cartellino arancione suona come un ammonimento anche alla Corte d'Appello di Brescia, che venerdì dovrà decidere quali prove ammettere alla revisione. Anche se al Giornale risulta che il dossier sia ancora «in fase di studio», la Procura generale di Brescia dovrebbe opporsi alla riapertura, come sostengono molti retroscena mai smentiti.
Il primo dei quali è arrivato dalla Provincia di Como, giornale vicinissimo alla Procura che ha blindato la condanna dei due coniugi con tre prove chiave (macchia di sangue, confessione e riconoscimento) che hanno monopolizzato il solito processo mediatico, elementi che lo stuolo di esperti di scienza forense ingaggiato dalla difesa di Olindo e Rosa si dice pronto a far sgretolare con prove nuove, di fronte a un'opinione pubblica certamente più innocentista di 17 anni fa.
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