Caso Cucchi. La Cassazione condanna definitivamente i due carabinieri che hanno pestato a morte Stefano Cucchi. Gli «ermellini» di piazza Cavour, dopo sei ore di camera di consiglio, infliggono 12 anni di carcere ad Alessio Di Bernardo e a Raffaele D'Alessandro, colpevoli di aver causato il decesso del geometra romano in stato di fermo nella caserma Appia della compagnia Casilina.
«Finalmente è arrivata giustizia dopo tanti anni almeno nei confronti di chi ha picchiato Stefano causandone la morte» commenta Rita Calore, la mamma di Cucchi. I due carabinieri vengono condannati per omicidio preterintenzionale in primo grado a 12 anni e in secondo grado, con aumento di pena, a 13 anni. Processo d'Appello, come richiesto dal pg della Cassazione Tomaso Emilio Epidendio, per il maresciallo Roberto Mandolini e Francesco Tedesco, il militare che con le sue dichiarazioni ha stravolto le indagini sulla morte del 30enne fermato in strada con alcune dosi di cocaina. Epidendio, in particolare, ha chiesto un processo bis «limitatamente al trattamento sanzionatorio» per Tedesco, condannato a due anni e mezzo per falso assieme a Mandolini. «A questo punto - ha detto la sorella Ilaria Cucchi - possiamo mettere la parola fine su questa prima parte del processo sull'omicidio di Stefano. Possiamo dire che è stato ucciso di botte, che giustizia è stata fatta nei confronti di coloro che ce l'hanno portato via».
Tredici anni di indagini, fra depistaggi, minacce e false testimonianze, sette processi alla lunga catena di comando che ha prima coperto i responsabili del drammatico pestaggio, poi falsificato atti e verbali mandando sotto processo anche degli innocenti. Come gli agenti penitenziari accusati, poi prosciolti da ogni accusa, di avere picchiato Cucchi all'interno della struttura carceraria. Una lunga odissea giudiziaria soprattutto per i familiari della vittima, a cominciare dalla sorella Ilaria che ha portato alla sbarra i carabinieri che avevano in custodia Stefano e che, invece, l'hanno malmenato selvaggiamente. «Una punizione corporale di straordinaria gravità - sottolinea il pg - per essersi rifiutato di sottoporsi a fotosegnalamento». Cucchi nel 2009 ha 30 anni, è tossicodipendente e spaccia per procurarsi la «roba». Il giovane viene fermato al Parco degli Acquedotti da una pattuglia dell'Arma mentre è in auto con un amico. È la sera del 15 ottobre del 2009. Quello che accade nella caserma dove viene portato si saprà solo dopo anni. Il giorno dopo il fermo, alla direttissima, l'arrestato si presenta con ematomi al volto, non riesce quasi a parlare e cammina a stento. Il giudice, Maria Inzitari, non lo guarda nemmeno in faccia, lo bolla come un «senza fissa dimora» e convalida l'arresto. Cucchi viene portato a Regina Coeli. Sta male. Si scoprirà solo dopo l'autopsia che i calci inferti, anche quando è ammanettato e a terra, hanno lesionato la spina dorsale. I medici del carcere lo visitano. Le sue condizioni peggiorano, alle 23 viene portato al pronto soccorso dell'ospedale Fatebenefratelli. Il referto parla di lesioni ed ecchimosi alle gambe, al volto con frattura della mandibola, all'addome con perdita di sangue, e al torace con frattura della terza vertebra lombare e del coccige.
Cucchi rifiuta il ricovero e viene riportato in cella. Ai familiari non viene concessa alcuna visita. Sette giorni di agonia poi Cucchi viene trasferito al reparto detenuti dell'ospedale Sandro Pertini dove muore il 22 ottobre. Pesa 37 chili.
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