«Aspettiamo la morte. Le giornate sono sempre uguali. Leggo poco perché da un occhio non ci vedo più e dall'altro la visione è ombrata. Qualche sera mi cucino la pasta e fagioli». Se a un criminale è concessa la grandezza, Raffaele Cutolo - morto ieri pomeriggio nell'ospedale di Parma - di questa concessione si è impadronito, ne ha fatto strumento di lotta e di dominio: e soprattutto di una autostima sconfinata, a volte oltre i confini della megalomania. Eppure l'ultima volta che un cronista si trovò faccia a faccia con lui - fu un cronista del Mattino, entrato chissà come due anni fa nel reparto di massima sicurezza - non si trovò davanti un pazzo. Il fondatore della Nuova camorra organizzata era un vecchio malandato, con la barba lunga, rassegnato e lucido. E in grado di mandare al mondo, attraverso il cronista capitatogli davanti, un messaggio chiaro: non mi pentirò mai.
Don Raffaè se ne va ieri pomeriggio, nel reparto clinico dedicato ai detenuti del carcere di massima sicurezza del carcere parmense. C'era arrivato in agosto, sull'onda di analisi sempre più preoccupanti dei tanti guai di salute che si portava appresso, arrivato al quarantunesimo anno di detenzione consecutiva, e tutti da sepolto vivo nel 41bis. Cutolo muore, e con la sua morte chiude nel più esplicito dei modi l'ultima polemica di cui è stato involontario protagonista, la bagarre politica e giornalistica sulle scarcerazioni (presunte) facili di piccoli e grandi boss grazie al Covid-19. Il ministro Bonafede, finito nel mirino, si rimangiò tutto, diede la colpa al capo del Dap e rispedì tutti in cella, chi stava bene e chi stava male. Cutolo, a quanto pare, stava male davvero.
Che sia stato un grande non lo dice solo l'essere diventato il coprotagonista di una canzone. Nei pochi anni passati tra l'ascesa e l'arresto (quando finì in cella aveva appena trentotto anni) Cutolo seppe trasformare una malavita crudele e arcaica come la camorra napoletana in un'organizzazione violenta ed efficiente, la Nuova camorra organizzata, in grado di imporre il suo dominio col sangue come di dialogare con lo Stato, muovendosi dietro le quinte dei segreti della Repubblica. Cutolo era l'uomo in grado di ordinare dal carcere di Ascoli un delitto in quello di Badu e'carros: il telegramma in codice con cui fece ammazzare il milanese Francis Turatello («Il Sommo ha deciso che lo zio del nord si sposi al più presto con Maranca») è entrato nella storia del crimine italiano. Ma Cutolo è anche l'uomo che fa liberare il democristiano Ciro Cirillo rapito dalle Brigate Rosse, dopo lunghe trattative con i servizi segreti. E la sua ombra si staglia dietro un giallo politico irrisolto, il rapimento nel 1977 del figlio del segretario socialista Francesco De Martino, che ne ebbe di fatto la carriera stroncata.
I suoi uomini, i colonnelli della Nco, si pentirono quasi tutti uno dopo l'altro: compreso Pasquale Barra, O' Animale, quello che aveva strappato il cuore a Turatello. Lui no, anche se a Parma continuava a ricevere offferte generose. Si porta nella bara molti segreti.
Uno per tutti: «Seppi da uno dei componenti della banda della Magliana, un tale Nicolino Selis, il covo dove era nascosto Aldo Moro, e lo feci sapere ad Antonio Gava che però mi mandò a dire: don Rafè, fatevi i fatti vostri».
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