Dai fondi a pioggia al caso Antonveneta. I giochi di prestigio all'ombra della sinistra

Il partito, a cominciare dal Pci, ha sempre avuto in pugno la Fondazione. Una serie di errori imperdonabili, fino al disastro

Dai fondi a pioggia al caso Antonveneta. I giochi di prestigio all'ombra della sinistra

La scatola nera del disastro Mps è la Fondazione che nel 1995 prende il bastone del comando. Le fondazioni sono nate per svecchiare il sistema bancario italiano, ma di fatto sono emanazione dei poteri locali. A Siena, città rossa per eccellenza, tutto gira intorno al Pci e ai suoi eredi. La Fondazione ha 16 membri: otto sono nominati dal Comune, cinque dalla Provincia, uno dalla Regione, uno ciascuno dall'Università e dall'Arcidiocesi di Siena. Banca e partito fanno parte di un unico circuito: si entra a Rocca Salimbeni, poi magari si passa in Comune o in Federazione, con un travaso continuo di incarichi.

Mps sembra una corazzata inaffondabile: fa piovere soldi a palate sul territorio, dà prestigio e autorevolezza a una città di strepitosa bellezza, ma appartata e fuori dalle grandi rotte. Così gli errori si susseguono imperdonabili, mimetizzati nell'ambizione irrefrenabile di manager che sanno tutto delle correnti del Pds, ma capiscono poco di bilanci e azzardano scelte che si riveleranno fallimentari.

Alla fine del 1999 Mps compra la Banca del Salento che Vincenzo De Bustis ha tolto da un sonnacchioso anonimato spingendola verso le magie dei derivati. La Banca del Salento è la stessa per cui posa una sexy Sharon Stone e De Bustis, che vanta solidi legami con il lato dalemiano del partito, ma anche col centrodestra, si installa a Siena. I giochi di prestigio però non funzionano e centinaia di clienti chiedono e ottengono il rimborso dei capitali investiti. De Bustis emigra altrove, alla Deutsche Bank, ma Siena non si guarda nello specchio rotto di una grandeur senza fondamenta.

La rincorsa continua e porta al salto che finirà in un tonfo rovinoso: Siena acquista dal Santander Antonveneta per la cifra monstre di 9 miliardi, più 7,5 di debiti con Abn Amro. Tanti. Troppi. Siamo nel 2007 e ora la banca più antica del mondo è guidata dall'avvocato Giuseppe Mussari, pure organico alla solita tradizione. Ma soprattutto siamo alla vigilia del crac di Lehman Brothers. All'incompetenza si somma la sfortuna. Ma i giornali scrivono che Rocca Salimbeni è entrata nell'olimpo tricolore ed è ormai la terza banca italiana.

Quella mossa segna invece la caduta nel precipizio e la fine di un modello apparentemente virtuoso che vede il partito motore della banca e la banca cuore del territorio. Per tamponare l'emergenza scatta il primo aumento di capitale, ma il carburante non basta. Siena bussa e lo Stato risponde: ecco i Tremonti bond, in pratica obbligazioni convertibili, poi i Monti bond. Nel 2012 Mussari lascia, partono le inchieste, nel 2013 il capo della comunicazione David Rossi muore in circostanze misteriose, precipitando dalla finestra del suo ufficio.

Come se non bastasse, dalla pancia dei bilanci emergono oscuri prodotti derivati di cui nemmeno la Banca d'Italia sapeva nulla e che sono serviti per occultare centinaia di milioni di perdite. Lo Stato finanzia con 6 miliardi l'ennesimo aumento di capitale e offre non una ma due stampelle all'istituzione che non sta più in piedi.

Ora Roma dovrebbe andarsene, ma la trattativa con Unicredit si incaglia.

Intanto il sistema dei vasi comunicanti va avanti come se nulla fosse accaduto: l'ex ministro dell'economia Pier Carlo Padoan diventa deputato a Siena e poi presidente proprio di Unicredit, in un incrocio vertiginoso e disarmante. Il suo seggio viene conquistato, nientemeno, dal segretario Pd Enrico Letta. La crisi può esplodere.

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