D'Alema si inventa "promoter" di armi. Ma pure il compagno Bersani lo scarica

L'autodifesa sul caso Colombia: "Promuovevo solo le aziende italiane". Il deputato Leu: "Ormai lui fa un altro mestiere"

D'Alema si inventa "promoter" di armi. Ma pure il compagno Bersani lo scarica

«D'Alema ha smesso con la politica. Fa un altro mestiere. Io ho interessi diversi». Arrivato al ventesimo giorno dello scandalo che lo ha investito per i traffici d'armi con la Colombia, a Massimo D'Alema tocca la rasoiata da parte di uno dei suoi successori alla guida del Pds, diventato nel frattempo il Partito democratico. É Pierluigi Bersani, in una lunga dichiarazione a Tpi in cui ragiona sulla ipotesi di un rientro nel Pd, a rendere esplicito in modo in cui molti, dentro al principale partito della sinistra, vivono il nuovo corso del vecchio leader. Fine della politica, testa agli affari.

A rendere imbarazzante quanto sta emergendo nelle trattative avviate da D'Alema per piazzare navi e aerei di Fincantieri e Leonardo al governo colombiano, aggirando la trattativa ufficiale già aperta tra i due paesi, è anche il livello non elevatissimo dei mediatori, in buona parte pugliesi, di cui l'ex premier si circonda. Al punto che l'ipotesi che tutto vada ridotto a una sorta di millanteria non viene esclusa dagli inquirenti della Procura di Napoli, che hanno aperto per primi un fascicolo sul D'Alema-gate. Fascicolo che però potrebbe venire presto spostato per competenza territoriale alla procura di Roma.

Il diretto interessato, nel frattempo, da visibili segnali di nervosismo. L'altro giorno, inseguito dalle telecamere delle Iene, «Baffino» non ha risposto alle domande. Ma poi ha accettato, per la seconda volta da quando è iniziato il caso (la prima era stata con una intervista a Repubblica dai toni decisamente più pacati) di rispondere alle domande del programma di Italia 1. E si è lasciato andare al turpiloquio, come spesso gli accade quando è nervoso. «La polemica non c'entra un beato cazzo, si vogliono danneggiare le imprese italiane che hanno avuto un danno molto grande ma di questo a voi non ve ne frega un cazzo».

In realtà a danneggiare Leonardo, la ex Fincantieri, potrebbe essere proprio quanto sta emergendo sul mandato informale che qualcuno, dall'interno dell'azienda, ha conferito all'ex presidente del Consiglio per trattare con le autorità colombiane. D'Alema nelle sue dichiarazioni alle Iene ha provato a negare che una trattativa sia mai esistita, «è una cazzata che non sta nè in cielo nè in terra, io parlavo con un signore per sostenere il fatto che si dessero da fare a favore della proposta italiana ma è un fatto promozionale, non una trattativa». Peccato che per questo «fatto promozionale» D'Alema puntasse a incassare ottanta milioni di euro, calcolati in percentuale secca del due per cento sull'importo della trattativa. E che nomi di esponenti di secondo piano delle autorità colombiane compaiano nelle intercettazioni pubblicate nelle settimane scorse dalla Verità.

Ma se D'Alema dà vistosi segni di nervosismo, non molto più serena è la situazione all'interno di Leonardo. L'audit interno, affidato a un coriaceo ex ufficiale della Guardia di finanza di nome Massimo Di Capua, sta andando in profondità per accertare chi nell'azienda, in palese violazione delle procedure, ha deciso di accogliere la autocandidatura di D'Alema come brasseur con le autorità di Bogotà.

Una candidatura che se fosse venuta da chiunque altro sarebbe stata probabilmente rispedita al mittente, e che invece è stata accettata, fino al punto di inviare una lettera di incarico allo studio legale di Miami dietro al quale si muoveva proprio «Baffino».

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