Dall'eutanasia al fisco, dalle coppie gay agli stabilimenti balneari, fino al Pnrr: quando i giudici vogliono fare le leggi invece di limitarsi ad applicarle, è inevitabile avere la sensazione che il sistema di equilibrio tra i poteri dello Stato, disegnato con cura dai Padri Costituenti, rischi di andare in crisi. Anche perché il contrario sarebbe impensabile: la politica le sentenze le lascia fare ai giudici (salvo poi apprezzarle o criticarle, ma questa è un'altra faccenda).
L'entrata a gamba tesa della Corte dei Conti, che ieri detta al governo le linee da seguire nel disegnare la manovra economica e tributaria, è solo l'ultima puntata di una tendenza espansionistica di cui si possono fare numerosi esempi, che chiamano in causa un po' tutte le magistrature del paese. Qualunque sia la toga che indossano, viene il momento in cui i giudici sembrano considerare riduttivo il ruolo per cui sono stati assunti, e insieme alle cause si mettono a giudicare le leggi (a volte prima ancora che vengano approvate) o a cercare di produrle in proprio. Vale per la magistratura ordinaria, per quella amministrativa, per quella contabile. Fino su su, al top della categoria, ovvero la Corte Costituzionale.
La deriva arriva da lontano, dagli anni Settanta, quando (lo racconta Ermes Antonucci in un libro affascinante uscito da poco, La repubblica giudiziaria) dalla sinistra in toga partì l'attacco alla «certezza del diritto», rivendicando il diritto a interpretare le leggi «in senso costituzionalmente orientato», ovvero dalla parte dei lavoratori e delle classi subalterne. Dall'interpretazione alla forzatura il passo fu breve. Il passo successivo, col crollo della Prima Repubblica, è stato cambiare le leggi: tagliandole, cucendole, condizionandole o - ed è il modo più semplice di tutte - non applicando affatto quelle non condivise.
Ci sono esempi alti e bassi. Il più recente e vistoso, l'intervento del Consiglio di Stato sul rinnovo delle concessioni balneari, che con una sentenza avvisò il Parlamento che se fosse stata emanata una legge di proroga non l'avrebbe applicata. «Una sentenza basata su notizie false e emessa andando oltre le sue competenze», la attaccò Maurizio Gasparri, ricordando che «le leggi le fa il Parlamento». Ma il Consiglio di Stato non demorde.
Ancora più deciso l'intervento della Procura di Milano sul delicato problema del «fine vita». Dopo avere chiesto e ottenuto l'assoluzione del radicale Marco Cappato per l'assistenza al suicidio del disc jockey «Fabo» Antoniani, i pm milanesi hanno sul tavolo altre due inchieste per altri due pazienti «terminati» in Svizzera con l'aiuto di Cappato, e nonostante il radicale sia reo confesso e i due episodi non rientrino nei casi sdoganati dalla Corte Costituzionale (i due non erano tenuti in vita artificialmente) la Procura non ha mandato a processo il radicale e anzi secondo l'Ansa si prepara a chiedere l'archiviazione dell'indagine. La legge sul «fine vita» ancora non c'è, ma la si applica lo stesso.
Il clou della linea interventista è rappresentato dalla Corte Costituzionale, che - lei sì - le leggi le può giudicare: ma da nessuna parte sta scritto che le può modificare, perorare, imporre. E invece da anni si è allargata le competenze, spesso nascondendosi dietro le indicazioni dell'Europa, e condizionando direttamente il potere legislativo.
Ultimo caso quello delle trascrizioni di genitori dello stesso sesso omosessuali, dove ha messo sull'avviso il Parlamento, pretendendo una nuova legge che apra la strada alle richieste delle coppie gay. Poiché il Parlamento non ha obbedito, la Consulta pare si stia preparando a intervenire lei stessa con una sentenza «creativa».
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