Gogna. È il sostantivo usato da Matteo Renzi per spiegare il periodo durante il quale lui e la sua famiglia sono stati messi alla berlina, mediatica e politica. La gogna era un collare di ferro la cui catena era agganciata ad una colonna nel centro dei paesi, nelle piazze e negli incroci per detenere criminali di poca importanza. La gogna non durava più di una settimana. Quella di Matteo Renzi cinque anni. Nulla rispetto ad altri casi di malagiustizia che hanno riguardato cittadini anonimi come Beniamino Zuncheddu incarcerato per 33 anni, da innocente, assolto nel processo di revisione o Giuseppe Gullotta condannato all'ergastolo ma, dopo 9 processi e 22 anni di prigione, assolto perché la sua confessione fu estorta con torture e sevizie. Nello stesso giorno in cui Matteo Renzi, prosciolto da ogni accusa, ha denunciato il proprio caso, è stato presentato a Torino il docufilm «Michele Padovano-Innocente-17 anni senza libertà», un produzione di Sky sport per la regia di Massimo Bomprezzi e Andrea Parini sul progetto editoriale di Federico Ferri, in onda il 3 e il 10 gennaio. La storia dell'ex calciatore della Juventus è il riassunto di quello che la giustizia, o meglio, i giudici, possono provocare nella vita di un cittadino, senza pagare mai le conseguenze dei propri errori, mai assumendosi la responsabilità di sentenze sbagliate. Il racconto di Padovano non è romanzato, è la cronaca feroce di manette, prigioni, isolamento, interrogatori, intercettazioni, trasferimenti, processi, accuse terribili, associazione a delinquere, narcotraffico, spacciatore internazionale, promotore e finanziatore di un sodalizio criminale, la complicità insinuata con Luca Vialli e Nicola Caricola, mai indagati, 8 anni e 8 mesi la prima condanna, in appello 6 anni e 8 mesi, fine di una esistenza dopo aver concluso la brillante carriera di calciatore, scudetti e la coppa dei campioni conquistata anche con un calcio di rigore da lui realizzato, il passato macchiato e cancellato dalle indagini, dalle telefonate intercettate con il suo amico di infanzia, lui sì coinvolto nel traffico di sostanze stupefacenti, voci maligne di paese, titoli di prima pagina dei telegiornali e fogli quotidiani, la nebbia, puntuale, delle amicizie improvvisamente scomparse, dileguatesi, le sole certezze, la moglie, Adriana, anch'essa indagata, il figlio, Denis, fragilità frantumata di un ragazzo di tredici anni, il padre sconvolto e poi avvolto, per quel dramma, da un tumore, alibi inutile per un magistrato che per tre volte negò a Michele di poter visitare il genitore degente come il sequestro in carcere della macchinina che Denis aveva portato al padre, perché gli fosse segnale di amore. Cuneo, Bergamo, siti di detenzione, stridio di cancelli, rumori disperati, compagni di cella, partite di pallone sulla ghiaia, avvocati, carte, firme, speranze, illusioni, notti senza fine, giorni senza alba, Michele Padovano cambiò i propri difensori, Michele Galasso e Giacomo Francini presero a studiare i faldoni, c'era un'idea di luce in quel buio tremendo. La vita bella, i denari sontuosi garantiti dal football, i momenti di gloria erano ricordo amarissimo, inesorabilmente Michele fu costretto a vendere tutto quello che con Adriana aveva messo assieme, proprietà, beni di famiglia, polvere di stelle dopo la polvere dell'accusa. Prese a chiedere lavoro, sveglia alle sei per alzare la saracinesca di un bar, i vecchi compagni lo evitavano, il calcio sbaracca la memoria dopo averci gozzovigliato, soltanto Vialli rispose alla chiamata, il resto è folla senza più un volto. La vita di margine, la solitudine, la sofferenza mascherata di Adriana, le lacrime continue di Denis, accentuavano il malessere, i giudici non spiegano, condannano, i tribunali sono uno stadio di tifosi cattivi, Michele però attacca, crede, non soltanto per fede religiosa, in un epilogo infine risarcitorio, sicuro della propria innocenza, dell'estraneità a quelle accuse infamanti. I giorni diventano settimane e poi mesi e ancora anni. Diciassette, un tempo che non può e non deve essere giusto ma è il nulla perfido nel quale procedono i magistrati, convinti non della verità oggettiva ma della propria convinzione, cito Piercamillo Davigo: «Non esistono innocenti ma colpevoli non ancora scoperti» per chiarire e poi confermare l'assunto. Michele Padovano era colpevole di essere amico di uno spacciatore, era colpevole perché personaggio pubblico, era colpevole perché aveva aiutato lo stesso amico, era colpevole perché non confessava le colpe, era colpevole perché così dicevano le intercettazioni poi smascherate, demolite nel loro «sfruttamento» e strumentalizzazione. Diciassette anni non saranno restituiti dalla sentenza di assoluzione per non aver commesso il reato, il collare di ferro, la gogna, ha lasciato il segno forte sul corpo e nella mente, l'ingiustizia ha fatto il suo lungo corso ma nessuno chiede scusa.
Michele Padovano è tornato sui campi di calcio come opinionista di Sky sport, ha ritrovato il sorriso di compagni smarriti, Conte, Del Piero, Ferrara, figurine di un album stracciato. Giulio Andreotti domandava: «Perché la splendida frase La giustizia è uguale per tutti è scritta alle spalle e non davanti ai magistrati?». Inutile aspettare la risposta, un giorno come diciassette anni.
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