
Nell'atteso vertice sulla difesa continentale votano il testo finale di sostegno a Kiev 26 Paesi su 27. Si sfila la sola Ungheria di Orbán, che in un'intervista definisce l'Ue «un leone sdentato», spiegando che gli altri leader promuovono pubblicamente l'adesione dell'Ucraina all'Ue, ma in privato condividono le stesse perplessità di Budapest: «Lungo i corridoi non siamo soli...», tuona il premier magiaro. In realtà la posizione della maggioranza dei Paesi membri è chiara; quanto a sostegno politico e militare. Ed esplicitata ieri in una frase entrata a sorpresa nel documento approvato dal Consiglio europeo: l'Ue mantiene il suo approccio di «pace attraverso la forza», si legge nelle conclusioni del primo giorno di summit; che, pur senza una capitale, conferma a 26 «l'incrollabile sostegno all'indipendenza, alla sovranità e all'integrità territoriale dell'Ucraina all'interno dei suoi confini internazionalmente riconosciuti».
La strategia prevede di mantenere ben forniti gli arsenali di Kiev: «Capacità militari e di difesa componente essenziale». Nulla di fatto, però, per l'idea che da giorni porta avanti l'Alto rappresentante Ue Kaja Kallas: raddoppiare i fondi per armare l'Ucraina, portandoli a 40 miliardi entro l'anno. Saranno al massimo 5 in più, come chiesto ieri dal presidente Zelensky in videocollegamento con i 27 dedicati alle munizioni di artiglieria. «Sulle modalità concrete le discussioni continueranno in vista del Consiglio sulla difesa del 2-3 aprile», scrive Kallas. Benché su base volontaria, rimosso il principio della proporzionalità dei contributi al piano pro-Kiev, da lei orchestrato, rispetto al Pil dei Paesi aderenti. Zelensky invita l'Ue ad appoggiare gli sforzi negoziali di Trump e rinnovare le sanzioni affinché Putin mantenga le promesse. Ma ad accendere il primo giorno di summit è soprattutto il confronto su come prender parte al processo diplomatico azionato dagli Usa, che per ora vede l'Ue spettatrice.
L'Alto rappresentante Kallas alza la voce respingendo l'ipotesi di nominare un inviato speciale Ue per i negoziati di pace, rivendicando «il suo incarico» nella squadra europea. Ma c'è uno iato tra la sua visione e quella di altri Paesi, che impedisce di dare a lei le chiavi della diplomazia: dal suo punto di vista (estone) serve più bastone che carota. Nordici e Baltici vs Europa centro-meridionale è l'altra spaccatura che rallenta l'azione comune, non solo Orbán. Col rischio di rimandare l'adozione del «ReArm» a giugno. La Lituania elogia il Libro bianco sulla difesa presentato da von der Leyen: i 27 ne discuteranno anche oggi per implementarlo. Prende corpo l'idea di introdurre fondi (come auspicato pure dalla Grecia) e non solo prestiti o concessioni sullo scorporo delle spese dal Patto di stabilità. Accolta ieri la proposta italiana di non affidarsi a risorse virtuali (i 650 stimati a debito e i 150 miliardi di prestiti). Si parla di unione dei mercati dei capitali, fondamentali secondo l'Italia per attrarre investimenti privati e mobilitarli, per cui servono «garanzie europee, una cosa diversa dagli eurobond, che l'Italia non ha chiesto», chiarisce la premier, consapevole del No di Paesi Bassi e altri rigoristi. Si va dunque verso un piano più ampio, rispetto all'iniziale «ReArm». E nella bozza di conclusioni si cita la proposta Meloni-Giorgetti di ricorso al fondo InvestEu. Lo spagnolo Sánchez dice che i fondi dovrebbero essere spesi anche per controllare i confini, combattere terrorismo e minacce cyber. Il commissario Dombrovskis da Kiev mette in guardia chi vuol mascherare le spesa. No al «defence washing», taglia corto staccando il secondo pagamento Ue da 1 miliardo di euro all'Ucraina nell'ambito dei prestiti del G7. Per Helsinki, la Russia è e sarà invece «una minaccia permanente, perciò stiamo costruendo una difesa forte».
La danese Frederiksen invita i partner a essere in grado di difendersi «entro 3 o 5 anni» viste le «minacce credibili» raccolte dagli 007. Il Cremlino alza i decibel: «L'Europa ha avviato la sua militarizzazione, si è trasformata in un partito della guerra in contrasto col processo di risoluzione pacifica».
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