
L'imposizione dei dazi ai commerci tra Stati decisa dall'amministrazione Trump non è la rivincita della politica sulla economia globale. Non è un segnale di forza, bensì di debolezza complessiva di guida del sistema, che, nel tempo, ha incassato i benefici della globalizzazione senza saperne correggere gli effetti maggiormente distorsivi.
Difficile mettere date precise a fenomeni mondiali tanto ampi, ma se vogliamo provarci, il mondo che abbiamo conosciuto fino a tre giorni fa nasce in una località balneare dell'Uruguay, Punta dell'Este, nel 1986, dove i Paesi riuniti nella Organizzazione del Commercio Globale, si incontrano per cominciare ad organizzare profeticamente il futuro, quello che sarebbe venuto con la caduta del Muro di Berlino.
Il negoziato, durato ben otto anni, fino al 1994, accompagnerà l'epoca di maggiori cambiamenti del globo dalla fine della Seconda Guerra Mondiale: la fine dell'impero sovietico, la riunificazione della Germania, il crollo del sistema monetario europeo con le speculazioni su sterlina e lira, era il settembre del 1992, il lento ingresso della Cina nel capitalismo in salsa socialista che chiudeva l'epoca collettivista della Rivoluzione Culturale e che avrebbe portato il Celeste Impero nella World Trade Organization, tempio business internazionale.
Questo nuovo ordine e il suo evolversi per almeno un ventennio, non fu frutto di scelte casuali, né tanto meno degli affari che prevalevano sulla politica. Al contrario, fu l'indirizzo impresso al pianeta da alcune fortissime leadership. In particolare, quelle riforme si ispirarono alla dottrina liberale di due Governi: quello di Ronald Regan in Usa e quello del suo alleato britannico, la signora di ferro Margaret Thatcher.
Fu tutta politica la decisione di rinunciare alla gestione di spazi fino ad allora pubblici per consegnarli al libero mercato: meno tasse, meno regole, meno burocrazia, più individuo, più impresa, più libertà.
La ricetta che aveva risollevato le economie americana e britannica e ridisegnato quelle società poteva essere applicata al mondo. Una idea tanto potente da plasmare anche dottrine progressiste che seguirono: il giovane Presidente Bill Clinton e l'altrettanto giovane Primo Ministro Tony Blair divennero non solo gli alfieri di quella globalizzazione, ma per storia personale, estrazione sociale, ne divennero anche il simbolo, in un mondo che cambiava davvero.
L'unificazione della Germania, l' Europa dell'Erasmus e della moneta unica di cui tutti, anche ad est, dove regnava il comunismo, sarebbero stati cittadini, il diffondersi di internet e della tecnologia americana. Pure da Pechino arrivava la nuova parola d'ordine del regime : arricchitevi. La creazione di una nuova classe media nel mondo, la dove regnava solo povertà, l'accesso per tutti a consumi di beni e servizi un tempo accessibili solo alle élite, la possibilità di viaggiare liberamente, hanno prodotto un effetto distrazione nella politica. Come se crescita e benessere fossero ormai elementi permanenti, di cui disinteressarsi, come se le regole dettate all'origine fossero diventate eterne e immutabili: mentre il mercato, le imprese, la finanza, la caduta delle barriere e delle frontiere stavano cambiando le nostre vite, la politica si ritirava al ruolo di spettatore, o, peggio, di disturbatore, intervenendo con regole sbagliate al momento sbagliato, abdicando al proprio ruolo.
Il mondo nella storia ha conosciuto molti periodi di crescita, che la politica ha saputo sfruttare, equilibrare, rendere patrimonio di tutti, limitando l'area di chi avrebbe potuto sentirsi escluso e in pericolo.
Dopo la prima rivoluzione industriale la politica fece crescere i diritti economici di tutti. Dopo il boom economico del dopoguerra, i diritti sociali e civili. La ricchezza della globalizzazione si è diffusa in modo potente nella inerzia della politica che non ha saputo, almeno dalla crisi della Lehman Brothers in poi, affrontare e cacciare i tanti cigni neri che stavano spuntando nel lago del benessere diffuso, ma non uguale per tutti.
E quei cigni neri hanno cominciato a turbare i sogni di progresso delle opinioni pubbliche più sensibili e influenti del pianeta, quella americana e quella europea, alimentandone le paure per il futuro. Quelle paure sono frutto però della negligenza della politica, non del funzionamento della economia, che ha fatto la sua parte. Le disuguaglianze che oggi alimentano il malessere derivano, quasi tutte, dall'assenza di attenzione e di lungimiranti scelte della mano pubblica. Una mancata politica di formazione e riqualificazione professionale ha prodotto lavoratori di serie b all'interno di quegli stessi paesi che guidano lo sviluppo tecnologico, un diverso accesso all'istruzione limita l'ascensore sociale delle nuove generazioni, una diversa conoscenza delle lingue e del digitale divide la popolazione tra chi considera il mondo la propria casa e chi invece lo considera un luogo ostile. La diversa infrastrutturazione tra città e campagna ha prodotto sacche di arretratezza: per alcuni la banda larga è la normalità a basso costo, per gli altri un autobus o un treno, un miraggio.
Ad aggravare tutto questo una politica che, assente nel passato e priva di una ricetta per il futuro, tende da tempo ad alimentare paure scaricando responsabilità proprie su altri: la finanza mondiale, le élite, le multinazionali. E non sapendo come fare un passo avanti, ne propone uno indietro, che sarebbe deleterio.
I dazi di Trump non possono essere la soluzione, credo lo sappiano bene anche alla Casa Bianca. Possono essere una potente sveglia per una politica dormiente da troppo tempo e che sarebbe l'ora tornasse a fare, a destra e a sinistra, il proprio mestiere: immaginare il futuro e non rifugiarsi nel passato.
Tornare a costruire una prospettiva come fece in quel lontano paesino dell'Uruguay nel lontano 1986, quando il mondo certamente non stava meglio di oggi. Nella consapevolezza, spero condivisa, che per costruire un muro nel passato bastarono un paio di notti, ad abbatterlo ci vollero circa trent'anni.
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