Nel fatidico giorno della mancata maggioranza di Giuseppe Conte al Senato, Repubblica lo ha dipinto come un’eminenza grigia rintanata nella sua casa “angusta, piccola, povera”: l’uomo con l’unico "lusso del Campari con ghiaccio”, il politico delle retrovie, il dirigente corpulento trasformato in una sorta di oracolo del Pd. Goffredo Bettini, classe 1952, appassionato di cinema e politica. È tornato dal suo buen retiro thailandese per sussurrare all’orecchio di Nicola Zingaretti. Ne è diventato il consigliere fidato, o almeno così l’hanno descritto i media. Ed è stato l’artefice dell’asse M5S-Pd-Leu, o almeno così lui la racconta. Dopo la nascita del Conte bis, voluta da Renzi con una data di scadenza, è Bettini a dire a Zinga di “fare 31” e abbracciare il Movimento per creare un nuovo campo progressista. Ci credeva talmente tanto da innamorarsi politicamente di Giuseppi “nuova prospettiva per la sinistra”. Uomo di relazioni con tutti i leader, in queste settimane si è sperticato in elogi, suggerimenti, consigli chissà quanto richiesti da Palazzo Chigi. Era convinto di riuscire nel miracolo del Conte ter ma ha fallito, battuto dal giovane e democristiano Renzi. Ha costretto il Pd ad un arrocco senza uscita su Conte, condannando Zinga alla marginalizzazione nella fase Draghi. Oggi, al netto dell’ex premier, è lui il vero sconfitto della crisi di governo.
Si è sempre detto che il Pd altro non sia che un insieme di due anime in fondo decisamente distanti, a sua volta divise nelle più disparate correnti. Da una parte gli ex comunisti, dall’altra gli eredi della Dc di sinistra. Ecco. Bettini il Pci ce l’ha ancora nelle vene, è il “grande partito" al quale si è iscritto a 14 anni. Nel Pd di Renzi, democristiano e arrembante, si trovava sicuramente come un pesce fuor d’acqua. Meglio lo stile Botteghe Oscure, fatto di “ordine, solidità e disciplina personale”. Altro che “first reaction: choc”. Al petto porta ancora fiero la medaglia di essere stato l’ultimo segretario della federazione del Pci romano prima della svolta del 1989, quella voluta da Achille Occhetto alla Bolognina, quando vedovi di Gorbačëv e del muro di Berlino i “compagni” furono costretti ad abbandonare la via di Togliatti, Lenin e Stalin. Che peccato. Lui, Goffredo da Roma, con la testa accettò la fine della falce e del martello, ma “il cuore era per il no”. “L'esperienza del partito comunista è stata la mia vita, forse persino in modo sbagliato psicologicamente - ha detto pochi giorni fa - Per questo dopo la svolta ebbi tre anni durissimi”. Poi inventò la candidatura Rutelli a sindaco della Capitale, avviò il Modello Roma e lavorò alla fondazione del Pd di Veltroni.
Da settimane viene disegnato dalla buona stampa come una sorta di oracolo del Signore della politica. Bettini dice, Bettini fa, Bettini suggerisce. “Pontifica su tutto - ha detto una volta Calenda - Ma se inizia a chiedere la convocazione di un Concilio facciamo qualcosa, vero?”. Come una sorta di Rasputin infallibile, teoricamente dietro le quinte, ha rilasciato numerosissime interviste convinto di avere il pallino della crisi in mano. Invece, a conti fatti, la sua strategia si è rivelata sostanzialmente fallimentare. Il 7 gennaio, quando ancora il leader di Iv minacciava tempesta senza ancora far piovere, s’era detto sicuro che Conte non fosse “assolutamente” a rischio. Circolò una voce secondo la quale avesse addirittura trovato una soluzione al dilemma dei dilemmi, ovvero come e se usare il fatidico Mes. S’è visto.
Quando le dimissioni dei ministri renziani gli arrivano tra capo e collo, non perde il suo insano ottimismo. Prima scommette sulla rapida raccolta dei 161 voti necessari al Senato per cacciare Renzi dalla maggioranza, poi si accontenta dei miseri 156 come “sufficiente punto di partenza”. Quella che lui stesso considerava una “avventura” fatta di “trasformismo, coalizioni incerte e improvvisate” diventa improvvisamente strategia politica. Prima i “responsabili”, poi i “costruttori”, infine Mastella, Tabacci e il gruppo parlamentare formato col prestito in extremis del Pd. Il corteggiamento di Forza Italia fallisce malamente: un paio se ne vanno, Vitali fa aventi e indietro. Troppo poco come scialuppa di salvataggio. Sicuro che “molti di Iv” avrebbero riflettuto e abbandonato Renzi, si è dovuto ricredere. Convinto che l’ex premier da Rignano avesse “sbagliato i tempi”, s’è trovato in mezzo al guado. Prima ha chiuso la porta in faccia al leader che “non garantisce stabilità”, poi gli ha chiesto “aperture” sulla giustizia. Pur di convincere i parlamentari a sostenere il governo, ha provato a terrorizzarli con l’alternativa “o si allarga la maggioranza o c’è solo il voto”, perché il Pd non avrebbe “mai” appoggiato “governo istituzionale”, per poi scoprire che Mattarella pensava già a Draghi. E che Zingaretti non potrà dire di no.
Eccolo, Goffredo Bettini. A rileggere la storia di queste settimane pare proprio che non ne abbia azzeccata una. Le consultazioni di Fico, su cui si diceva “molto fiducioso”, hanno dato il colpo finale alla sua strategia. Il motto “o Conte o morte” con cui sperava di consegnare centralità al Pd ha finito per trascinare tutti nel baratro. Le correnti interne sono i subbuglio. “Ma quando Bettini va su giornali e tv a spiegare la strategia del Pd esattamente a nome di chi parla? - si chiede Alfredo Bazoli, di Base riformista - Di se stesso? Della sua corrente? E in quale veste? Semplice militante? Segretario facente funzione? Così mi regolo”. Ieri su Tpi è uscito un pezzo strappalacrime, con tanto di “gratitudine” nell’animo per Conte, firmato proprio dallo sconfitto dirigente.
“È ovvio che molti non hanno condiviso le mie posizioni. Rispetto le critiche. Sempre. Tranne quelle accompagnate dalla intimazione a stare zitto. Ribadisco: il Conte ter era a portata di mano”. Così a portata che ora ci ritroviamo Draghi.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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