Milano. Non era il suo scopo, no. Resta però il fatto, incontrovertibile - e da lei stessa ammesso con gelida sincerità ieri nel carcere di San Vittore, in sede d'interrogatorio di garanzia - che ha agito come se lo volesse o, comunque, non per evitarlo a ogni costo. Un ragionamento impietoso, ma simmetrico come le due metà esatte di una mela tagliata e perfettamente ricomposta quello del gip di Milano Fabrizio Filice. Che ha convalidato il fermo, disponendo con ordinanza il carcere per la 37enne Alessia Pifferi, quindi ha qualificato il suo reato - l'aver abbandonato la figlia Diana di appena un anno e mezzo sola in casa per sei giorni, lasciandola poi morire di stenti e disidratazione - come omicidio volontario. Proprio come aveva chiesto il pm Francesco De Tommasi.
Di fronte all'alternativa di far funzionare la relazione con il compagno che vive a Leffe, nella Bergamasca, e raggiungerlo (lui infatti non è il padre della bambina della Pifferi, ndr) o di accudire sua figlia di un anno e mezzo, lasciata sola in casa per 6 giorni, ha scelto la prima, sapendo benissimo che la piccola poteva morire. L'ha confessato lei stessa e sta in questa decisione, frutto di una «personalità non equilibrata», la «principale motivazione» che secondo il gip ha spinto Alessia Pifferi, 37 anni, abituata a mentire ai familiari e alle persone vicine, ad abbandonare la sua Diana, lasciandola poi morire.
«Io ci contavo sulla possibilità di avere un futuro con lui e infatti era proprio quello che in quei giorni stavo cercando di capire; è per questo che ho ritenuto cruciale non interrompere quei giorni in cui ero con lui anche quando ho avuto paura che la bambina potesse stare molto male o morire», recita lapidario il passaggio più importante delle dichiarazioni della Pifferi davanti al giudice.
La Pifferi, una vita randagia senza punti di riferimento (ma dov'erano i servizi sociali, qualcuno speriamo se lo chiederà e faccia le opportune verifiche, ndr), chiuse la porta della casa di via Parea 16, nel popolarissimo quartiere di Ponte Lambro, nel tardo pomeriggio di giovedì 14 luglio. Accanto alla sua bimba, adagiata in un lettino da campeggio, solo un biberon con del latte (e delle gocce di ansiolitico? Il prosieguo delle indagini dopo le risultanze dell'autopsia lo dirà e potrebbe scattare l'accusa di premeditazione, per ora esclusa) andò dal compagno a Leffe (Bergamo). Quattro giorni più tardi, lunedì 17, la donna ripassò con lui, ignaro di tutto, per Milano. Non si recò però dalla figlia e si recò da lei, a casa, solo il 20 luglio.
«Mi diceva che preferiva venire senza di lei così respirava» ha messo a verbale il compagno, un elettricista 58enne sentito dalla squadra mobile di Milano. Con lui il rapporto era in crisi anche se era ripreso a giugno, dopo che Alessia Pifferi nel frattempo aveva frequentato altri due uomini. Per questo lei aveva «urgenza» di raggiungerlo. Una sensazione che si era persino «accresciuta» negli ultimi giorni quando la bimba per il caldo «era più capricciosa». Probabilmente è così che decise «di anticipare il weekend e partire già giovedì».
La 37enne, «incline alla mistificazione» e senza «rispetto per la vita umana», prosegue il gip Filice. E aggiunge che la donna aveva una «forma di dipendenza psicologica dall'attuale compagno, che l'ha indotta ad anteporre la possibilità di mantenere una relazione con lui anche a costo di infliggere alla bimba enormi sofferenze».
Nelle ultime settimane, per diversi fine settimana, era andata da lui senza portare la figlia. All'uomo diceva che «Diana rimaneva con la sorella» o con «la baby sitter». Una valanga di menzogne per giustificare un comportamento che non ha giustificazioni. «Se avesse portato anche la bambina mi avrebbe fatto piacere» ha spiegato l'uomo alla polizia.
Alla 37enne è stato riconosciuto l'omicidio volontario con condotte «omissive». La Pifferi non si è limitata a prevedere e accettare «il rischio» che la piccola morisse ma, «pur non perseguendolo come suo scopo finale, alternativamente» lo ha voluto. Così ha giustificato il fatto di essere passata per Milano senza correre da Diana per salvarla.
«Avevo paura che la bambina potesse morire - ha aggiunto la donna - dall'altra però avevo anche paura sia della reazione, del giudizio negativo di mia sorella (e così non la chiamò per mandarla a soccorrere Diana, ndr), sia della reazione del mio compagno». E infine: «A partire dalla domenica (...
) ho cominciato ad avere concretamente paura che la bambina morisse ma comunque mi auguravo che non succedesse (...) era una specie di speranza». Dopo il terzo giorno, ha concluso, «non ero tranquilla, ma forse ha prevalso la stanchezza che mi portavo dentro, perché sono una ragazza madre, nessuno mi aiutava ed era molto pesante».
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