Difendiamo le donne anche da loro stesse

Chi non si ribella la accetta e diventa complice del proprio aguzzino. Chi non si ribella si scava la fossa con le proprie mani. Abbiamo il dovere di denunciare

Difendiamo  le donne anche  da loro stesse

La «giornata internazionale per l'eliminazione della violenza contro le donne» avrà certo sensibilizzato i cittadini su un fatto che ci pareva assodato: le donne non si picchiano, non si toccano neanche con un fiore. Per la verità, ci sembrava una regola scontata (ma non per questo universalmente rispettata), come la massima generale per cui non devi fare agli altri quello che non vuoi sia fatto a te. Tuttavia confidare nella clemenza maschile, nell'astensione volontaria da pugni e calci, non basta.

Alla violenza, care donne, abbiamo il dovere di ribellarci. Chi non si ribella la accetta e diventa complice del proprio aguzzino. Chi non si ribella si scava la fossa con le proprie mani, come quelle ragazze occidentali esaltate dal jihad che prendono un volo da Parigi o da Vienna per atterrare in Siria e farsi ammazzare dai carnefici che si sono scelte. Alla prima manifestazione di violenza si deve dire: no, grazie. Non siamo un soggetto passivo, imbelle e incapace. Denunciare è un dovere.

A volte purtroppo non basta ma troppo spesso le donne subiscono in silenzio, abbracciano il compagno che poco prima le ha gonfiate di pugni, e se parenti e amici provano a prestare aiuto vengono puntualmente allontanati. In Italia il simbolo della «giornata internazionale» ha il volto di Chiara, la 19enne romana ridotta in fin di vita da un fidanzato che l'ha letteralmente massacrata di botte. Lui ora sconta una condanna a sedici anni di reclusione per tentato omicidio, e ci auguriamo che almeno in questo caso la certezza della pena non si riveli una formula vuota (niente sconti in corso d'opera, grazie).

Ma la storia di Chiara, i risvolti meno visibili, fanno riflettere su una violenza persino peggiore di quella maschile: è la violenza che una donna infligge volutamente a se stessa. È la pena masochistica che una donna commina contro se stessa. Ti picchia e ritorni con lui. Ti scaglia una sedia addosso, e ritorni con lui. Ti sferra un calcio nella pancia, e tu, ansimante di dolore, torni a dormire con lui. Questa donna è vittima di se stessa prima ancora che dell'uomo che la maltratta.

«L'ho detto mille volte a Chiara che era pericoloso», spiega all'indomani della tragedia il padre Maurizio, che oggi veglia un corpo ridotto a un vegetale, e mostra le foto di Chiara prima e dopo quello sfogo di violenza ferina che le ha sconquassato la calotta cranica. Lui l'aveva dissuasa a più riprese dalla frequentazione con il muratore 35enne, con precedenti di droga, conosciuto un anno prima durante una passeggiata con il cane Molly a pochi metri da casa. «Era noto nel quartiere come spacciatore. L'ho denunciato una prima volta e mi ha minacciato in strada. Ho presentato una terza denuncia per circonvenzione d'incapace ma non c'è stato il tempo». In quell'occasione Chiara aveva persino preso le difese del fidanzato spiegando ai carabinieri che l'ostinazione paterna contro di lui le sembrava del tutto ingiustificata. Sebbene lo conoscesse da pochi mesi, nulla poteva tenerla lontana da lui.

Soltanto lei, maggiorenne, avrebbe potuto decidere di tagliare i ponti, affidarsi al padre e denunciare i maltrattamenti, reiterati, che pativa in silenzio.

Per questo la commemorazione delle vittime, le lacrime e gli appelli a «non picchiare» non bastano. Non sarà la clemenza maschile a salvarci. Dobbiamo essere noi a ribellarci alla violenza, prima che sia troppo tardi.Annalisa Chirico

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