Il difensore delle cause perse ​condannato pure dai compagni

La "rivoluzione arancione" lascia in eredità qualche pista ciclabile e le coppie di fatto: un po' poco per Milano

Il difensore delle cause perse ​condannato pure dai compagni

Festa finita. Giù il sipario sulla rivoluzione arancione del 2011. Quella che stingendo un po' i vecchi arnesi dell'ideologia rossa, aveva ingannato un elettorato più borghese che di sinistra, arrivato al massimo tasso alcolico dell'ubriacatura antiberlusconiana. E allora con il putto fiorentino Matteo Renzi ancora acerbo per la presa del potere e con un improponibile e antiestetico Pier Luigi Bersani alla guida del Partito democratico, per la gauche caviar l'alfiere del nuovo corso progressista non poteva che diventare l'avvocato rosso prestato alla politica. Quel Giuliano Pisapia che, con un passato in Democrazia proletaria nella Milano degli Anni di piombo, un passaggio in Parlamento nelle liste di Rifondazione comunista e la difesa dalla famiglia di Carlo Giuliani morto negli scontri del G8 di Genova, poteva indubbiamente esibire un pedigree très chic. Soprattutto perché mitigato dai modi gentili e dalla fama di galantuomo che si era guadagnato negli anni frequentando le aule del tribunale, ma anche molti salotti buoni. E presiedendo con equilibrio la commissione Giustizia della Camera. Macchia non da poco, invece, non aver votato la legge per istituire il Giorno della memoria, in omaggio agli esuli istriani e alle vittime delle foibe. Uno sfregio ripetuto ogni anno con il protervo rifiuto a partecipare da sindaco alle cerimonia del Comune per ricordare i massacri di sgherri titini e partigiani rossi.Certo, nessuno pensava che lui, insieme all'evanescente Marco Doria a Genova già travolto dalle esondazioni del Bisagno, al mite Massimo Zedda a Cagliari e all'arruffapopolo Luigi De Magistris a Napoli, avrebbero fatto la rivoluzione. Ma il colore di moda per la stagione 2011 era indubbiamente l'arancione. E così, per dare un po' di aria nuova ai palazzi comunali, sembrava potessero andar bene. E così è stato: un po' di aria fresca e nulla più, come hanno sentenziato senza nessuna possibilità di appello le elezioni primarie organizzate domenica scorsa dal centrosinistra a Milano per scegliere il prossimo candidato sindaco. Tornata vinta da quello sponsorizzato Renzi, l'ex commissario Expo Giuseppe Sala che già fu city manager per la giunta di Letizia Moratti.

E che ora se la dovrà vedere con altri due manager non certo di sinistra: quello Stefano Parisi che è stato city manager con l'altra giunta berlusconiana guidata da Gabriele Albertini e Corrado Passera, già Poste e Banca Intesa.Della sinistra a Milano più neanche l'ombra. Così va l'Italia post nazarena, dove il Pd è costretto ad affidarsi a un uomo di destra come Sala per riprendere Milano dalle mani di quella sinistra che con l'avvocato rosso Pisapia l'aveva strappata a vent'anni di governo del centrodestra griffato Formentini, Albertini e Moratti. Roba da mal di testa. Curioso destino per il popolo della sinistra che sarà costretto da Renzi a votare Sala, un manager scelto da Berlusconi e Gianni Letta per guidare l'Expo. Sperando di battere Parisi, il manager che lo stesso Berlusconi ha scelto per conquistare nuovamente la città. Gli fa un baffo il trasformismo democristiano al gattopardo fiorentino Renzi, al cui cospetto quei notabili da prima Repubblica dorotei o morotei che fossero, erano dei dilettanti nello spregio dei valori in nome della conquista del potere a ogni costo. Ché è sempre meglio cummannari che f..., dicevano.Un Renzi che con il suo solito cinismo ha già abbandonato al suo destino Pisapia e la sua impalpabile rivoluzione arancione che in cinque anni ha già deluso i milanesi. Soprattutto quelli che proprio a lui pensavano di affidare il destino della sinistra. E magari anche quello dell'Italia. Un leader, pensavano i compagni, in grado di raccogliere l'eredità di uno già sparito Nichi Vendola. Ma non è andata così.Il bello è che in tutto questo Pisapia ci ha pure rimesso una montagna di soldi. Perché arrivato a Palazzo Marino (quello nella cui stanza d'angolo nacque la monaca di Monza) con una dichiarazione di reddito Irpef da oltre 863mila euro nel 2010, se ne va con gli appena 102mila del 2014. Che, moltiplicato per i cinque anni del mandato, fanno un bel salasso offerto in dono ai milanesi. Magari ora Pisapia potrà tornare a dedicarsi allo studio legale lasciatogli in eredità dal padre Gian Domenico, principe del foro e tra i redattori del Codice di procedura penale del 1989. Con la soddisfazione, magari, del busto nel chiostro a fianco dei predecessori sindaco come Antonio Greppi e Virgilio Ferrari. Per il resto a Milano lascerà ben poco. Qualche inutile pista ciclabile e il registro delle coppie di fatto. Insieme alla battaglia, per ora non vinta, per registrare e riconoscere in Comune i matrimoni omosessuali celebrati all'estero. Per il resto molte fotografie con tanto di fascia tricolore al taglio dei nastri. Ma solo di opere progettate e finanziate durante il famigerato ventennio del centrodestra: metropolitane, grattacieli, il nuovo quartiere di Porta Nuova e la stessa Expo portati a Milano solo grazie ad Albertini e alla Moratti.Ma a pesare sul suo futuro sarà ancor di più il naufragio della sua ultima operazione politica. Dopo aver annunciato con lo sconcertante anticipo di quindici mesi la decisione di non ricandidarsi, dando il via a un sciogliete le righe che ha paralizzato giunta e consiglio comunale (e quindi Milano), Pisapia raccontano si sia parecchio indispettito quando Sala è diventato l'unto di Renzi e lui è stato giubilato in quattro e quattr'otto.

Non che tra i due corresse buon sangue. E siccome Pisapia è uomo di puntiglio, ha pensato bene di reinventarsi regista della resistenza della sinistra-sinistra, quella contraria a trasformare Milano nel laboratorio del renziano partito della nazione, il contenitore ecumenico per imbarcare verdiniani, alfaniani, cattolici più o meno teocon e transfughi vari. E così la scelta è caduta sulla sua vice, quella Francesca Balzani che qualche mese prima aveva assicurato di non pensarci nemmeno. Peccato che in campo ci fosse già il suo assessore Pierfrancesco Majorino. L'uomo del Pd delegato a raccogliere l'anima più sinistra del partito. L'unico sussulto di vita nella campagna delle primarie del duo Pisapia-Balzani? Mezzi pubblici gratis per tutti. Roba che nemmeno Antonio La Trippa.Mesi di trattative per cercar di ricomporre la frattura e marciare uniti verso la meta, convincendo Majorino a ritirarsi. Velenosi mormorii di accordi sotto banco con Sala e Renzi ora della Balzani, ora dello steso Majorino per incassare un posto da vice sindaco in cambio della partita fatta perdere all'altro, con Pisapia a metterci la faccia per chiamare a raccolta il popolo arancione. Ma al momento di girarsi, la scoperta di essere solo. Il popolo arancione non c'è più. S'è già messo in coda per seguire un altro pifferaio, la cui unica magia per ora è aver fatto sparire la sinistra. Sala, intanto, come una formichina raccoglieva i voti dei cinesi, degli ammutinati di Forza Italia, dei discepoli di Denis Verdini. Raccogliendo alla fine 23mila voti, molti meno dei 30mila incassati da Pisapia alle primarie dell'altra volta. Pochi, ma quanto basta per seppellire la rivoluzione arancione. Che alla fine per tutti rimane l'unica vera sconfitta.

Anche perché i primi a saltare sul carro del vincitore Sala, sono stati proprio gli assessori «arancioni» della giunta. In molti casi dei miracolati, fatti salire a bordo proprio da Pisapia. E, come sempre succede, i primi a lasciare la barca che comincia ad affondare.

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