Può diventare la rivincita del «fattore umano» su un modello di business che minaccia migliaia di posti di lavoro in un'industria già pericolante di suo, oppure l'ultimo tentativo di rimandare una rivoluzione comunque inevitabile. Il New York Times ha annunciato di avere fatto causa a OpenAI e a Microsoft per violazione del diritto d'autore: la prima è l'azienda creatrice di ChatGPT, il chatbot basato sull'intelligenza artificiale; la seconda è una dei maggiori finanziatori di OpenAI (con 13 miliardi di dollari) e impiega la nuova tecnologia nel proprio motore di ricerca Bing. Secondo il ricorso presentato dal Times presso la Corte distrettuale federale di Manhattan, OpenAI ha impiegato «a scrocco» milioni di articoli pubblicati dal quotidiano per addestrare ChatGPT, al quale ora sempre più utenti del web si rivolgono come fonte di informazione, a discapito del quotidiano. Nel ricorso non è indicata una richiesta esatta di risarcimento, ma si sottolinea come le due aziende siano responsabili per «miliardi di dollari di danni legali ed effettivi» legati all'«utilizzo illegale» del materiale del Times. Inoltre, il quotidiano chiede che OpenaAI e Microsoft distruggano qualsiasi modello di chatbot e qualsiasi dato derivante dall'uso dei suoi articoli. La causa, se non verrà risolta da un accordo extragiudiziale, potrebbe creare un precedente decisivo in un'industria che sta registrando una crescita impetuosa, ma i cui contorni legali sono ancora vaghi. OpenAI, recentemente al centro delle cronache per il temporaneo allontanamento del suo co-fondatore e amministratore delegato Sam Altman, ha un valore di mercato di 80 miliardi di dollari. Il New York Times, con circa 300mila copie cartacee al giorno e 9 milioni di abbonati digitali, è una delle poche testate giornalistiche tradizionali che è riuscita con successo a reinventarsi sul web, pagando il prezzo di ristrutturazioni durissime e di un paio di rivoluzioni generazionali all'interno della redazione. Chiaramente, il quotidiano della famiglia Sulzberger non intende lasciare che altri «usino gratis i suoi massicci investimenti nel giornalismo». È un po' quello che è già accaduto, negli Stati Uniti, con le cause intentate da autori come Jonathan Franzen e John Grisham, o dall'agenzia fotografica Getty Images, dopo che si è scoperto che i programmi di Intelligenza Artificiale avevano assorbito migliaia di romanzi, opere di saggistica e immagini fotografiche, per poter generare le risposte ai 'prompt' - le domande - degli utenti. Attenzione però a non confondere questa battaglia legale con una crociata culturale, anche se il Times denuncia che se le aziende giornalistiche «non possono produrre e proteggere il loro giornalismo indipendente, si creerà un vuoto che nessun computer o intelligenza artificiale sarà in grado di colmare». Al centro dello scontro, in ultima analisi, ci sono i soldi. Il ricorso del quotidiano è infatti stato presentato dopo che le trattative avviate ad aprile con OpenAI-Microsoft per «risolvere in maniera amichevole» la questione si sono concluse senza esito. Altri editori si sono invece già accordati con i creatori di ChatGPT: l'Associated Press ha siglato a luglio un accordo per concedere i propri contenuti; il mese scorso lo ha fatto il gigante tedesco Axel Springer.
Il Times per lanciare la sua battaglia legale si è affidato allo studio legale Susman Godfrey. È lo stesso che rappresentò la Dominion Voting Systems nella causa per diffamazione contro Fox News. La vicenda si risolse ad aprile con un accordo da 787,5 milioni di dollari.
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