Dobbiamo trattare per riportarla a casa e ammettere la realtà: siamo in guerra

Non è un conflitto diretto ma parte di una strategia ibrida di un regime totalitario. Ecco perché serve un'azione diplomatica

Dobbiamo trattare per riportarla a casa e ammettere la realtà: siamo in guerra
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Ora l'impegno primario, irrinunciabile è riportare Cecilia Sala in Italia. Il cammino è già tracciato: il governo italiano dovrà condurre in porto una complessa trattativa su due fronti, verso l'Iran e verso gli Stati Uniti, con un epilogo che porterà probabilmente Roma a confermare l'arresto dell'imprenditore di droni iraniano, Mohammad Abedini, fermato a Milano tre giorni prima dell'arresto della giornalista italiana, ma a non estradarlo negli Stati Uniti.

Un compromesso, il migliore possibile, in una situazione di guerra. Appunto, guerra. Ibrida, diplomatica, per procura, definitela come volete, ma guerra. Una condizione di cui, purtroppo, nel nostro paese c'è poca consapevolezza un po' in tutti. Nell'opinione pubblica, nel giornalismo e nella politica. E magari la vicenda di Cecilia Sala servirà ad illuminarci tutti su una cruda realtà di cui siamo a conoscenza nominalmente, ma che minimizziamo o addirittura rifiutiamo.

Un conflitto inedito, che vede le democrazie schierate contro le autocrazie, le teocrazie, insomma i regimi. E fa una certa impressione in questa vicenda riscontrare quell'incomprensione di fondo, quei linguaggi diversi che ci dividono da quei mondi, da Teheran come da Mosca: noi sulla Sala parliamo di garanzie, ricordiamo che la giornalista aveva i visti per entrare nel Paese, parliamo di giustizia e chiediamo lumi sui capi d'accusa. Discorsi, argomenti, congetture che dall'altra parte neppure trattano.

Delle sottigliezze dello stato di diritto, se ne infischiano: per Teheran la Sala è stata arrestata per uno scopo, rinchiusa in un carcere per dissidenti e sarà liberata solo se il governo italiano garantirà che l'imprenditore dei droni iraniano non sarà estradato negli Stati Uniti. Ostaggio per ostaggio, come avviene in guerra in Ucraina, in Russia, in Libano o a Gaza.

Una logica spietata, da regime, di cui noi non ci rendiamo conto fino in fondo. Te ne accorgi quando da noi si parla di Putin, degli Ayatollah, quando le nostre anime belle dissertano sulle responsabilità dell'Occidente dimenticando che dall'altra parte non c'è infamia, ingiustizia, persecuzione che non sia permessa.

Certo la democrazia è piena di limiti, non è un paradiso, a volte è ingiusta e sicuramente è migliorabile, ma l'alternativa è l'inferno in terra.

Dimentichiamo questa differenza siderale come rimuoviamo l'idea che in un modo o nell'altro siamo anche noi dentro la guerra. Per cui non dobbiamo meravigliarci delle pretese americane, del desiderio dell'intelligence d'oltreoceano di mettere le mani sull'imprenditore dei droni. Ordigni volanti che non vanno solo ad organizzazioni terroristiche come Houthi e Hezbollah (e già solo questo dimostrerebbe che Washington ha le sue ragioni), ma i droni iraniani sono stati una risorsa fondamentale per Putin nella guerra contro l' Ucraina. Addirittura ci sono in Russia stabilimenti che producono droni basati su tecnologia iraniana. Basta fare un giro a Yelabuga, in Tatarstan. Per cui quell'ingegnere iraniano dal nome impronunciabile, per americani e iraniani ha l'importanza che per i nazisti ebbero i tecnici che crearono le V-1 o le V-2 con cui bombardarono Londra. Ogni drone si porta dietro una lunga scia - rammentiamolo - di morti tra soldati e civili.

Per cui Cecilia Sala va riportata in Italia a qualsiasi costo, è un impegno che deve assumersi il governo di un Paese democratico come l'Italia perché da noi la vita di una cittadina, di una giornalista ha un valore inestimabile, non siamo la

Teheran dei morti di piazza, delle persecuzioni e delle impiccagioni. Solo che d'ora in avanti dobbiamo essere consapevoli - tutti - che la guerra come scrive Vittorio Feltri «non è una scampagnata alle porte di Milano».

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