Ora è tutto chiaro. Donald Trump non era solo un candidato nel mirino di un folle, ma anche una vittima designata abbandonata al proprio destino da chi aveva l'obbligo istituzionale di garantirne la sicurezza. Quel che nelle prime ore era solo un sospetto ora è realtà. Sabato il portavoce dei servizi segreti Anthony Guglielmi ha infatti ammesso che l'agenzia incaricata di garantire la sicurezza del presidente e di tutti i candidati alla Casa Bianca aveva respinto tutte le richieste di misure di sicurezza supplementari avanzate dal comitato elettorale repubblicano. Una marcia indietro a dir poco sconcertante.
Solo pochi giorni prima, infatti, Guglielmi liquidava come «infondate, irresponsabili e inequivocabilmente false» tutte le accuse rivolte all'agenzia. E a rendere ancor più insostenibile la posizione dei servizi segreti e della direttrice Kimberly Cheatle legata a doppio filo all'amministrazione dem, si sono aggiunte le rivelazioni arrivate dalla Pennsylvania. Tutte le forze di polizia locali chiamate a collaborare nei controlli della fattoria in cui si è svolto l'attentato alla vita di Trump hanno infatti dichiarato di non aver ricevuto dai servizi segreti alcuna indicazione riguardante il controllo e la bonifica della zona appena fuori dal perimetro di sicurezza. Ovvero proprio quella in cui era appostato lo sparatore.
Una sottovalutazione talmente grave da spingere persino il deputato democratico della Pennsylvania Brendan Boyle a chiedere le dimissioni della Cheatle accusandola di «fallimenti operativi inaccettabili». Ma la testa della Cheatle non basterà a chiudere il caso. Dietro l'attentato a Trump e le inaccettabili leggerezze che hanno permesso ad un folle di sparargli da meno di 130 metri, si nasconde la disinvoltura con cui tutta l'amministrazione statunitense, dal presidente fino all'ultimo funzionario democratico, si è unita al coro mediatico politico e giudiziario che ha contribuito alla demonizzazione di Trump presentandolo come una via di mezzo tra un delinquente, un truffatore e uno psicopatico. Una strategia comunicativa non diversa da quella usata a suo tempo in Italia per criminalizzare Silvio Berlusconi e in Slovacchia per mettere con le spalle al muro il primo ministro Robert Fico sopravvissuto per miracolo alla pallottole di un folle.
Una strategia spregiudicata e intollerante che mira a trasformare l'avversario politico in un nemico o, peggio, in un «cattivo» non degno di rispetto e quindi nemmeno di protezione.
Elementi resi ancor più gravi nel caso americano dal ruolo di un servizio segreto che istituzionalmente dipende dal Dipartimento della Sicurezza Nazionale, ovvero dal Dipartimento responsabile della difesa di tutti i cittadini. Ma non di quella di un candidato che l'America dem definisce «pericoloso e impresentabile».
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