Persona dell'anno. Ma con rabbia. Come il Look back in anger di John Osborne. Time magazine, il settimanale che un tempo scandiva la storia americana insieme a Life e che poi è rimasto solo, non esita ad attribuire a Donald Trump, 45° presidente degli Stati Uniti (uniti?) d'America lo scettro di protagonista dell'anno in chiusura. Per vincere copertina e titolo non serve essere buoni. Anche i cattivissimi meritano i loro riconoscimenti e non c'è dubbio che per il settimanale Trump è una creatura infernale. Mentre gli attribuisce il titolo, lo ritrae con l'uniforme, quasi un pigiamone natalizio, del buonissimo: a piece of cake che non dice nulla di crudele ad alcuno salvo non rispondere mai alle domande dirette che gli fanno. È una tecnica e funziona. Un cronista gli chiede se pensa di cambiare personalità a causa della sua investitura di presidente e lui risponde: «Ma non vede quanta gente si raccoglie intorno a me per rendere l'America di nuovo grande? Non vede che ci sono anche altri Paesi grandissimi, pensi alla Cina...» e così via, a ruota lietamente libera guizzando. L'intervistatore dà crescenti di affaticamento perché riconosce anche lui un tratto di onnipotenza placida del nuovo presidente non soltanto e non tanto una furbizia, ma una volontà politica di riportare la palla al centro del suo discorso di protagonista, sicuro di battersi affinché gli Usa tornino a essere i protagonisti assoluti di un mondo che è diviso su tutto. La Russia mette per la prima volta un veto alla Cina per bloccare l'hamburgheria di Aleppo, mentre la stessa Cina si chiama sempre più fuori dal pianeta Terra edificando città grandi il doppio della SudCorea e creando trasporti in conflitto con la fisica di Newton. Intanto, il Califfato annaspa ma non tira le cuoia, l'Europa e specialmente l'Italia si spolpano davanti al Regno Unito che arraffa quel che gli passa davanti, magari il Monte Paschi. L'arrivo di The Donald coincide con uno squilibrio insano del mondo ereditato dal XX Secolo, e fra queste frazioni di universo in crisi ci sono proprio loro, gli Stati Uniti che secondo l'ultima moda vengono chiamati Stati Disuniti, sicché Trump sarebbe alla fine presidente di una maionese impazzita che galleggia nello tsunami universale. L'impressione che probabilmente hanno anche nella redazione di Time è che il nuovo presidente sia inconsapevolmente maoista: il grande timoniere cinese ripeteva che se sotto il cielo tutto è in crisi, la crisi è buona. Gli Usa sono realmente in crisi perché Stati come la California navigano verso l'orbita d'uscita grazie a una società egoista gaudente e ribelle, e Trump difficilmente potrà farci qualcosa. La scommessa che tutti fanno sulla «persona dell'anno» è sapere se l'abitante della torre d'oro sulla Fifth Avenue avrà almeno la voglia di tentare l'unificazione dei pezzi disuniti.
Gli Usa sono stati spaccati molte volte, lacerati da guerre assurde come la campagna militare contro i mormoni dello Utah o con la feroce guerra di secessione, in trincee d'odio fra americani di origine irlandese o inglese, cattolici e protestanti e ora indiani e cinesi. Trump sale sul trono di primo presidente degli Stati Disuniti d'America, e sia. Ma ha il suo metodo: far finta di nulla e non rispondere alle domande, specialmente a quelle della Storia.
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