È la prima volta per l'Italia e forse avrebbe meritato qualche polemica in meno e qualche applauso, o almeno incoraggiamento, in più. I battimani sono arrivati in extremis, a denti stretti. Con i tweet pesanti di Matteo Renzi e Enrico Letta. «Complimenti - afferma Renzi - alla prima donna premier, prima di una lunga serie, speriamo». «L'unica novità - riconosce Letta - è una donna premier, un fatto storico per il nostro Paese». Sono parole decisive che danno finalmente l'idea di quel che sta capitando in queste ore, dopo settimane di guerra in trincea e frasi infelici con cui si cercava di sminuire la portata di quel che si profilava all'orizzonte.
Si volta pagina, dunque, e cambia spartito anche la sinistra che non era riuscita a realizzare quella rivoluzione da sempre predicata. L'arrivo di Giorgia Meloni a Palazzo Chigi colma un ritardo clamoroso rispetto ai principali Paesi europei. Una distanza che si misura in anni, anzi in decenni. Questo è il primo dato su cui riflettere.
Prendiamo la Gran Bretagna: l'era di Margaret Thatcher inizia il 4 maggio 1979 e si conclude il 28 novembre 1990. Davvero siamo in un altro secolo e quella pagina di cronaca che l'Italia comincia a scrivere oggi, a Londra è già diventata storia. Con le sue luci e le sue ombre, ma è stata metabolizzata da almeno due generazioni di cittadini del Regno Unito.
Se ci spostiamo a Parigi troviamo la parabola corta di Édith Cresson, il primo ministro donna di Francia, ambientata al principio degli anni Novanta. Anzi, se la longevità della Thatcher è un primato nell'Inghilterra del ventesimo secolo, lo è altrettanto la brevità della Cresson che non ha certo la popolarità universale delle colleghe più famose: appunto la Lady di Ferro e Angela Merkel, a sua volta protagonista di una stagione storica, appena conclusa.
Si può discutere e cavillare all'infinito, ma è evidente che Londra, Berlino e Parigi - dove pure è il Presidente della Repubblica la figura dominante - hanno anticipato di gran lunga la svolta nella mitica parità dei sessi. Per questo sarebbe stato lecito aspettarsi un briciolo non di buonismo ma di onestà intellettuale, specialmente dagli uomini e dalle donne della sinistra che hanno sempre sventolato con orgoglio la bandiera della militanza femminista.
Invece, nessuno o quasi, fuori dal perimetro ipocrita delle quote rosa, ha riconosciuto nelle scorse settimane di bagarre elettorale il cambio in atto con Giorgia Meloni. Semmai sono arrivate critiche e punture di spillo.
Cosi Enrico Letta cercava di capovolgere la realtà con un discorso che sfiorava il ridicolo: «Il tema di fondo è quello di una donna premier che porta avanti politiche maschiliste. Allora è molto meglio un uomo premier che porta avanti politiche femministe».
Artifici retorici per negare quel che non si pensava potesse mai accadere. La prima donna premier, ma a destra. «Giorgia Meloni e il suo partito - era la conclusione tranchant - hanno portato sempre avanti politiche maschiliste».
Insomma, un uomo travestito da donna. O qualcosa del genere.
Anche Laura Boldrini, che coltiva e, talvolta, contorce anche la lingua italiana al femminile, si preparava a festeggiare come fosse un lutto: «Non tutte le donne sono uguali e non è detto che se una donna arriva a questo incarico farà politica a vantaggio delle donne». Poi la nomina plana per davvero, l'Italia raggiunge gli altri Paesi e i leader finalmente s'inchinano: «Auguri a Giorgia».
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