Non fu una operazione indolore, quella condotta da Federico Cafiero de Raho - allora capo della Direzione nazionale antimafia - per concentrare sotto il controllo del suo ufficio tutte le Sos, le Segnalazioni di operazioni sospette provenienti dalla Banca d'Italia. Nella Procura di Cafiero le Sos diventarono la gigantesca banca dati cui attinsero il pm Antonio Laudati e il tenente Pasquale Striano per confezionare centinaia di dossier illegali a vantaggio dei giornalisti del Domani e di altri beneficiari ancora sconosciuti. Ora si scopre che a segnalare per tempo la anomalia del monopolio Dna delle segnalazioni di Bankitalia furono i tre procuratori della Repubblica più importanti d'Italia. Cafiero andò avanti per la sua strada.
A raccontare a verbale lo scontro - pacato nei toni, duro nella sostanza - con Cafiero è Giovanni Melillo, che nel 2022 venne designato alla guida proprio della Dna, mentre il suo predecessore si preparava al salto in politica nelle file dei 5 Stelle. Melillo era all'epoca capo della Procura di Napoli. E quel che accadde lo ha raccontato quando è stato interrogato nell'ambito dell'indagine su Laudati e Striano.
A prendere l'iniziativa, ha raccontato Melillo, furono insieme a lui i procuratori della Repubblica Francesco Greco, di Milano, e Giuseppe Pignatone, di Roma. Entrambi si trovavano d'accordo su un punto: la pretesa della Dna di centralizzare tutte le segnalazioni di operazioni sospette, anche se non riguardanti mafia o terrorismo, rischiava di rallentare gravemente le indagini di competenza delle loro Procure. Del rischio di fughe di notizie c'era già stato un sintomo allarmante, l'approdo di una Sos sulla Lega alle pagine del Domani prima ancora che ai pm di Milano. Ma le dimensioni «mostruose» (definizione di Melillo) che avrebbe assunto il traffico di documenti erano allora impensabili.
A preoccupare i tre procuratori era solo l'efficienza dei loro uffici. Davanti a questo pericolo chiesero e ottennero un incontro con il Procuratore generale della Cassazione, Giovanni Salvi, segnalando i rischi dell'operazione iniziata dal predecessore di Cafiero de Raho, Franco Roberti, ma allargata a dismisura dal futuro deputato grillino.
Davanti alle proteste dei colleghi, Cafiero il 17 settembre 2019 andò a rivendicare le sue ragioni fino in Parlamento, spiegando alle Commissioni Giustizia che nelle sue mani le Sos sarebbero divenute uno strumento formidabile di lotta al crimine, «perchè oggi le mafie sono mafie degli affari». Con una promessa che - col senno di poi - fa quasi sorridere, il procuratore nazionale assicurò che i dati trasmessi alla Dna sarebbero finiti in una «piattaforma telematica idonea a assicurare trasparenza e segretezza».
Nasce lì, in quei mesi del 2019, la diffidenza delle maggiori Procure d'Italia verso l'operazione di Cafiero de Raho. E ora Melillo spiega che proprio sull'onda di quelle perplessità appena prese la guida della Dna azzerò il gruppo di lavoro organizzato dal suo predecessore, fino ad allora nelle salde mani della coppia Laudati-Striano.
Ora la testimonianza di Giovanni Melillo assume un peso rilevante nell'inchiesta di Perugia. Non sulla sorte dei due indagati principali, l'ex pubblico ministero e il finanziere, che verrà decisa oggi dal tribunale del Riesame di Perugia chiamato ad esprimersi sulla richiesta di arresto avanzata dal procuratore Raffaele Cantone (in ogni caso, Striano e Laudati resteranno a piede libero fino all'esito del ricorso in Cassazione). Il cuore della testimonianza di Melillo riguarda la figura di Cafiero de Raho.
Quali erano i veri obiettivi del magistrato? Oggi Cafiero è vicepresidente dell'Antimafia, si rifiuta di lasciare il posto anche se la commissione dovrà occuparsi del suo ruolo nell'affare dei dossier. Ma il leader di 5 Stelle Giuseppe Conte ieri lo ha difeso a spada tratta, definendolo «un campione di legalità» e avvisando: «Giù le mani da Cafiero de Raho».
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