Muoversi «in ordine sparso» porta alla sconfitta, poiché «siamo troppo piccoli, non si va da nessuna parte». Vox clamantis in deserto. Oggi come allora. Sentire Mario Draghi (foto) pungolare da Budapest l'Europa a prendere in fretta, e in modo unitario, le decisioni vitali per la propria sopravvivenza adesso che Donald Trump è tornato in sella all'America, è come riavvolgere un nastro vecchio di sette anni. Era il 2017: il Tycoon attaccava la Germania per aver camuffato il marco con l'euro e Draghi, da presidente della Bce, gli rispondeva per le rime. Approfittando però dell'occasione per dare anche una sveglia a Bruxelles sull'unione bancaria e sull'integrazione del mercato dei capitali. Tutta roba lasciata a prender polvere da un'inerzia colpevole.
Un coacervo di veti incrociati, interessi nazionalistici e rigorismo sui conti (soprattutto quelli in casa d'altri) che continua a impastoiare l'Ue, impedendole di stare al passo coi tempi. «Ci sono grandi cambiamenti in vista e credo che quello che l'Europa non può più fare è posporre le decisioni - ammonisce l'ex premier - . In tutti questi anni si sono posposte tante decisioni importanti perché aspettavamo il consenso. Il consenso non è arrivato, sono arrivate solo uno sviluppo più basso, una crescita minore e oggi una stagnazione».
Una visione miope che va sostituita con un modo di agire rapido, senza le preclusioni ideologiche che molte cancellerie europee hanno nei confronti del prossimo inquilino della Casa Bianca. Riflette Draghi: «Non c'è alcun dubbio che la presidenza Trump farà grande differenza nelle relazioni tra gli Stati Uniti e l'Europa. Non necessariamente tutto in senso negativo, ma certamente noi dovremo prenderne atto». Con un approccio ben diverso rispetto a quello da «pronti allo scontro» che già s'immaginano a Berlino e Parigi. «Dovremo negoziare con l'alleato americano, con uno spirito unitario in maniera tale da proteggere anche i produttori europei», la prima raccomandazione di Draghi.
Consapevole dei pericoli posti dal protezionismo senza sfumature di grigio di The Donald. Che non è solo il braccio armato dei dazi, ma anche la difesa di quelle imprese tradizionali «che sono proprio le industrie dove noi esportiamo di più negli Usa» e l'impulso aggiuntivo all'hi-tech, lì dove «noi siamo già molto indietro, e questo è il settore trainante della produttività».
L'unità d'intenti nelle decisioni strategiche andrebbe però affiancata da un'adeguata potenza di fuoco finanziaria, calcolata qualche mese fa dallo stesso Draghi in 800 miliardi di euro l'anno. Quattrini che potrebbero essere reperiti, almeno in parte, attraverso l'emissione di eurobond. Un punto che per l'ex Bce non è tuttavia un'urgenza immediata: «È indispensabile ma non è la prima cosa. Quello che il mio Rapporto (sulla competitività, ndr) dice è che ci sono moltissime altre decisioni che si possono prendere senza affrontare immediatamente il problema del finanziamento pubblico comune». Ciò vale anche per il 2% del Pil che gli Stati europei dovrebbero stanziare per la propria difesa, un livello che a detta del ministro dell'Economia, Giancarlo Giorgetti, «è molto ambizioso e non del tutto compatibile» con le nuove regole di bilancio? «Bisognerà prendere tutta una serie di decisioni - la risposta di Draghi - , in questo è inutile dire se è possibile o meno, oggi bisogna decidere cosa fare perché questa è la nuova situazione. Poi... i soldi si trovano». Già, i quattrini.
Ma non solo quelli: il Rapporto Draghi è già oggetto di spaccature fra gli Stati membri sui singoli capitoli e la tabella di marcia per il mercato dei capitali va oltre il 2026. Il solito film, ormai quasi ai titoli di coda.
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