La prof accoltellata a Varese, quella aggredita ad Abbiategrasso. E ancora, il preside assalito dalla mamma di uno studente, l'insegnante bersagliato con i proiettili di plastica dai suoi alunni. Le forme di violenza sui docenti sono sempre di più e di varia natura. Ognuna scoperchia un problema diverso: il bullismo, i genitori «molli», la fragilità giovanile, un disturbo psichico che non ha mai avuto un nome.
L'ultimo episodio di Varese dà il pretesto per addentrarsi in un tema passato troppo spesso in secondo piano: il disagio psichico. Spesso confuso con impulso adolescenziale, con malessere post pandemico, con debolezza e ribellione tipiche dell'età. Eppure il quadro italiano è preoccupante, a cominciare dai numeri: i ragazzini tra i 10 e i 19 anni che manifestano disturbi psichici sono 2 milioni secondo il rapporto Sinpia, la società italiana di neuropsichiatria infantile. Ma solo il 20% riceve una diagnosi, gli altri restano in un limbo che, se va bene, li lascia nell'ombra di una quotidianità difficile e annodata. Se va male, li fa varcare il cancello della scuola con un coltello in mano, incapaci di gestire e frenare istinti, rabbia e tutto quel mondo interiore che li rende frustrati. Il prof diventa il bersaglio più vicino, quello più «scomodo», quello da affrontare.
Solo il 25% di chi ha un disturbo riceve un trattamento appropriato. E la responsabilità non può cadere solo sulla scuola. Spesso chi ha bisogno di un ricovero non viene ricoverato. Chi invece viene dimesso resta abbandonato a se stesso. Mancano neuropsichiatri infantili (bisognerebbe formarne 400 all'anno), mancano posti letto (ce ne sono 400 e ne servirebbero almeno 700) e nel Servizio sanitario nazionale servono almeno 15mila psicologi contro i 5mila di oggi. Soprattutto mancano le strutture semiresidenziali, i centri diurni, gli interventi intensivi a domicilio.
Il problema quindi è aggravato sia dal fatto che molti giovani non chiedono aiuto sia dalle difficoltà ad accedere ai servizi di salute mentale. Una rete c'è (il bonus psicologo, la presenza di uno psicologo a scuola) ma evidentemente non è sufficiente visto l'aumento delle richieste (soprattutto dopo la pandemia) e il sottobosco di malessere da stanare. Non solo, il sistema informativo sulla salute mentale che raccoglie i dati dai dipartimenti e li invia al ministero della Salute riguarda solo i cittadini italiani da 18anni in su. Quindi spesso del disagio giovanile non c'è traccia nei rapporti ufficiali. Insomma, i «buchi» sono parecchi e non può essere solo la scuola a farsi carico di tutto. Perchè, anche quando i ragazzi sono seguiti bene e conosciuti da anni, non basta.
Il ministro all'Istruzione Giuseppe Valditara sta cercando non solo di portare lo psicologo a scuola ma anche di insegnare alla comunità scolastica ad essere «solidale» nei confronti di chi ha un disagio. E creare una rete sociale potrà contribuire a responsabilizzare i genitori perchè affrontino (non da soli) il problema dei propri figli.
Il ministero sta anche lavorando per migliorare il sostegno: innanzitutto con insegnanti specializzati e non più «migrati» da altre materie. E poi garantendo più stabilità, sia stabilizzando i docenti, sia dando la possibilità alle famiglie di ragazzi disabili di chiederne la presenza per almeno tre anni.
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