«Ci vanno benissimo le persone con un aspetto diverso dal nostro, per lo meno finché la pensano come noi». Vanno bene: donne, uomini, transgender, omosessuali, neri, Latini, musulmani, rifugiati, asiatici - qualunque minoranza possibile. Purché la minoranza rispecchi un certo modo di interpretare il mondo: purché la minoranza non sia conservatrice. Repubblicana. Cristiana evangelica, poi. A dirlo è un liberal (nel senso americano di progressista) dal curriculum inattaccabile, Nicholas Kristof: editorialista del New York Times, premio Pulitzer (con la moglie) per i reportage sulla rivolta di piazza Tienanmen, altro Pulitzer per come ha raccontato il genocidio in Darfur, oppositore della prima ora della guerra in Irak, uno che sul web sintetizza i suoi interessi con le parole politicamente correttissime «salute globale, povertà, questioni di genere nel mondo in via di sviluppo». Uno che si occupa di dare voce a chi non ce l'ha.
Solo che questa volta, in uno dei suoi commenti sul New York Times, Kristof ha dato voce ai conservatori, discriminati nelle università americane. E i lettori l'hanno subito attaccato. L'articolo, A Confession of Liberal Intolerance, «confessione di intolleranza liberal», intende proprio questo: che i progressisti, in realtà, siano intolleranti. Cioè, predicano tanta tolleranza e uguaglianza di diritti e amore per la diversità, ma c'è un ma, un muro invalicabile: il pensiero, l'ideologia, la religione. Questi non sono temi su cui dissentire dal credo dominante, e Kristof se n'è accorto quando, su Facebook, ha provato a discutere sul fatto che «nelle università americane i conservatori siano emarginati e la diversità intellettuale danneggiata». Emarginazione, attacco alla diversità: questioni apparentemente liberal, apparentemente di sinistra. Macché. I «compagni liberal» hanno reagito, per esempio, così: «Il grosso della visione del mondo conservatrice è fatto di idee che sappiamo empiricamente essere false», oppure: «La verità ha un orientamento liberal». Quindi per il resto non c'è spazio, no? Logico. Uno ha sintetizzato: «Sono molto deluso, Mr. Kristof».
Dice (osa dire) Kristof, che così le aule universitarie si trasformano in «camere dell'eco», insomma si sente, si insegna e si ripete sempre la stessa solfa, lo stesso pensiero; che così anche la «qualità della formazione» rischia di risentirne. Non è solo questione che i progressisti siano incoerenti con quello che loro stessi predicano, non è solo che la tanto sbandierata diversità ne risulti minata; è che certe opinioni, certe idee, spariscono. Lo dicono i numeri, citati da Kristof: fra i docenti in ambito umanistico, i repubblicani sono fra il 6 e l'11 per cento; fra il 7 e il 9 per cento nelle scienze sociali; appena il due per cento in Inglese. Un lettore spiega la disparità numerica dicendo che le università «richiedono un'apertura alla quale i conservatori e gli evangelici non vogliono sottostare» (ah, ecco. Che poi, lo stesso lettore si chiede, sinceramente: «Ma l'intolleranza è necessariamente un male?»).
Secondo un altro studio, un terzo degli accademici sarebbe meno incline a sostenere un candidato, se fosse un repubblicano. Se poi fosse un cristiano evangelico, la percentuale salirebbe al 53-59 per cento. Tanto che George Yancey, sociologo di colore e di fede evangelica, ha raccontato a Kristof che, fuori dall'università, ha più problemi in quanto nero ma, dentro, ha più problemi in quanto cristiano; e un altro professore è arrivato a sostenere che la sua situazione è «come quella di un gay nel Mississippi degli anni '50».
Ma no, non è vero perché, come spiega un altro lettore (liberal) indignato, «nessun professore conservatore è mai stato picchiato o ucciso per il suo credo politico». Perciò non si può certo dire che i conservatori siano discriminati...
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