La missione di Giorgia Meloni a Londra ha attirato l'attenzione delle cancellerie europee. La special relationship che sembra essersi creata con Rishi Sunak è stata attentamente decrittata, soprattutto all'Eliseo. E ora è Parigi a voler parlare con Meloni. Emmanuel Macron è pronto al tappeto rosso per Giorgia. Roma prepara la missione. E quasi certamente a giugno la premier volerà in Francia.
Gli sherpa, tanto di Palazzo Chigi, quanto della Farnesina, dell'Economia e dell'Interno, stanno già lavorando al «necessario» passo. Non tanto per ricucire con Parigi dopo i rabbuiati animi delle scorse settimane (causa migranti e gendarmi a Ventimiglia). Ma per un'intesa da trovare anzitutto sulle regole europee del nuovo Patto di stabilità. Macron, su questo, è considerato il potenziale miglior alleato; per dar peso alle (ormai comuni) necessità di mitigare all'occorrenza certi vincoli di bilancio. L'incontro è però frutto di intenso lavorio di cesello, con dossier da sacrificare per portare a casa un faccia a faccia «fruttuoso» dopo il fugace incontro di marzo a Bruxelles.
Ci ha pensato da ultimo il 23 aprile il presidente Sergio Mattarella, sfruttando l'occasione del Festival du Livre di Parigi in cui l'Italia era ospite d'onore, a suggerire a mezzo stampa, a entrambe le parti, di «conoscersi al di fuori dei consolidati stereotipi», creando, nel confronto, «le condizioni per superare la fragilità di una interpretazione dell'identità basata sul rifiuto dell'altro». E se il Quirinale ha spesso mediato tra i due governi, ora i tempi si considerano maturi perché sia Meloni a prendere la palla.
A Parigi non dispiace, in questa fase cruciale, «il ritorno della politica a Roma», come viene definito il nuovo corso italiano. La recente visita in Italia del ministro dell'Economia Le Maire è stata la prova generale. Il dialogo con Giorgetti e col titolare delle Imprese Urso ha individuato margini per una cooperazione che punta a consolidare le imprese italo-francesi, migliorando gli «schemi finanziari» per attrarre investimenti e realizzare la decantata sovranità europea.
Resta da superare lo scoglio - più mediatico che personale - della provenienza di Meloni da un partito che in Francia si continua a mal definire «post-fascista» e di «estrema destra». Macron è però l'emblema del pragmatismo cinico di chi sa cogliere occasioni al di fuori del Dna dei protagonisti. Oltralpe ha cancellato le dipendenze del sistema da socialisti e neogollisti, assumendo le sembianze di un liberale Giano bifronte pur di raggiungere i suoi obiettivi di programma. Certo, stampate nella memoria di Roma restano frasi pronunciate da alcuni suoi fedelissimi, come Gabriel Attal, che sui migranti definì il comportamento italiano (nel 2018) «vomitevole». Ma tanto Roma quanto Parigi oggi puntano a smussare gli angoli, (che sull'Africa si sentono tutti), e vincere insieme certe partite in campo Ue (e pure in Ucraina, col sistema antimissile italo-francese e altri aiuti Nato da inviare).
Sul Patto di stabilità, Macron è incline a dar ragione all'Italia (stanando Berlino, la cui posizione non è ancora chiarissima, e i falchi olandesi, da addomesticare sulle regole di bilancio). In nome di investimenti funzionali (e di un debito che pure Parigi vede crescere), anche lui ha capito che la soglia del 3% deficit-Pil non può essere il mero obiettivo. Per rilanciare la crescita gli Stati possono necessitare di spesa; non si vive di tagli automatici per onorare il rigore tout court. La Spagna è disposta ad accordarsi al tandem.
E in vista di Consigli europei che da luglio vedranno Madrid dar le carte, altro che asse franco-tedesco. Con Meloni presto all'Eliseo, a Bruxelles scrutano già i nastri di partenza di questo ipotetico nuovo assetto: Roma-Parigi-Madrid.
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