Questa è la storia di uno di noi. Anzi, di uno meglio di noi, essendo uno scandinavo più tollerante, più civile, più democratico, più «accogliente», per principio e per definizione, di uno di noi, nati un po' più a sud di quelle linde contrade. Ed ecco la novità. Oggi può accadere che perfino il più mite dei danesi, sopraffatto da questa ondata migratoria che sta cambiando i connotati dell'Europa, guardandosi allo specchio ammetta: «Sì, sono diventato un razzista. Non ce la faccio più. Basta. Se ne tornino al loro Paese!».
Perché non sono cambiati solo i connotati fisici, dell'Europa che conoscevamo -quanti zucchetti bianchi, quante barbe, quanti camicioni paki, quante donne velate vedi, a colpo d'occhio, se ti affacci a un quinto piano di un palazzo di periferia a Parigi, a Stoccarda, a Oslo, a Stoccolma?- Ma anche culturalmente, con masse di stranieri che a stento smozzicano qualche brandello della tua lingua ma vogliono imporre i loro usi e costumi, il loro modo di pregare e di alimentarsi, la loro lingua (c'è un quartiere di Londra dove le targhe delle strade sono scritte solo in bangladeshi, o come si chiama la lingua di chi viene dal Bengala). Uno di noi anzi uno che fino a pochi anni fa era meglio di noi, per i motivi che abbiamo detto- si chiama Johnny Christensen. Lo ha trovato a Copenhagen il New York Times, che ha dedicato al fenomeno dei «razzisti di ritorno» europei un lungo articolo. Sessantacinque anni, impiegato di banca in pensione, Christensen è l'archetipo del cittadino nordeuropeo, uomo forse un po' grigio ma probo e ligio alle regole. Uno di quelli cresciuti a pane e socialdemocrazia che un tempo non avrebbe esitato a manifestare la sua solidarietà nei confronti di chi scappa da fame e guerra. Oggi però, dopo che il suo Paese (neanche 6 milioni di abitanti) è stato invaso da 36 mila stranieri in soli due anni, lo ammette senza remore. «Sono diventato razzista». E di fronte al giornalista che lo intervista scalcia furente, mimando una pedata diretta al deretano di chi dice lui. «Arrivano in massa, succhiano le risorse di quel welfare che noi ci paghiamo versando fior di tasse - prorompe - e non si adattano neanche alle regole. Qui ciascuno tiene in ordine il suo giardinetto, si muove in bicicletta, lavora duro e paga le tasse. Allora io dico: vuoi venire a vivere qui? Queste sono le regole. O le rispetti o te ne torni al tuo paese. Punto».
Fino al 1967, racconta il New York Times, gli stranieri in Danimarca erano mosche bianche. Fu alla fine degli anni Sessanta che si aprirono le porte a lavoratori iugoslavi, turchi, pakistani. Dopo di che, con moto vieppiù crescente, fu il diluvio.
Sicché, se è vero che 5 milioni e 700 mila sono i «nativi» danesi, oggi la loro percentuale sul totale della popolazione è scesa all'88 per cento (era il 97 nel 1980). Sono questi numeri che fanno dire a quelli come Christensen, che sono maggioranza, che votano sempre più per l'estrema destra e non vogliono una società multiculturale, che c'è del marcio in Danimarca.
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