Elly, ultima vestale del Sessantotto

L'ultima sessantottina. A 38 anni chiude il '68. La travolgente sconfitta di Elly Schlein alle elezioni comunali della scorsa settimana, in controluce, nasconde un passaggio epocale per la politica di sinistra.

Elly, ultima vestale del Sessantotto
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L'ultima sessantottina. A 38 anni chiude il '68. La travolgente sconfitta di Elly Schlein alle elezioni comunali della scorsa settimana, in controluce, nasconde un passaggio epocale per la politica di sinistra. Cioè la fine del mito fondativo della falsa rivoluzione studentesca che diviene - in via definitiva - il suo esatto opposto: un mito distruttivo. Sia chiaro - e su queste colonne lo potete leggere sin dalla nascita di questo quotidiano - il Sessantotto non ha creato un bel niente, se non delle rendite di posizione ben remunerate per le comparse - borghesi e annoiate - che hanno partecipato a una carnevalata che nell'immaginario progressista ha subìto, anno dopo anno, una mitopoiesi al limite del ridicolo. Ma per più di una generazione, come il ricordo di un rito di iniziazione, ha scandito le dinamiche, definito le gerarchie e persino tratteggiato gli usi e i costumi di una cultura di sinistra che voleva essere contro(cultura) ma si è calcificata in un mainstream ortodosso e rigoroso. Eppure, diluitisi i ricordi con gli insuccessi elettorali, crollate miseramente a terra le ideologie, sparpagliati come in una diaspora i suoi componenti, il Sessantotto ha continuato a sopravvivere camminando sulle gambe di coloro i quali non lo avevano né fatto, né vissuto. Quindi ulteriormente trasformato e deteriorato, con abitudini che sono diventate tic, diritti che hanno manifestato tutta la loro essenza di rovesci e vezzi rivoluzionari sempre più imbolsiti.

In questo Elly Schlein, classe 1985, appare una conservatrice delle ritualità del Sessantotto, l'ultima vestale del big bang della sinistra Novecentesca. Quel sovrappiù di verbosità intellettualoide, al termine del quale, con lo sguardo un po' smarrito, dopo venti minuti di logorrea, ci si chiede: «Ma cosa cavolo voleva dire?». Quell'ossessione per la collegialità assembleare da liceo occupato (possibilmente in centro città e con ottime frequentazioni) per cui tutto sembra deciso, limitato e concertato dopo infinite e fumose riunioni, quando poi in realtà pensa a tutto il solito politburo. Quell'aspetto un po' delabré e raffazzonato, perché in fondo ci sono da salvare i destini del mondo dalla barbarie capitalista e dalle orde fasciste, non si possono mica perdere ore davanti all'armadio o allo specchio. E infatti poi si paga una armocromista da centinaia di euro all'ora per finire, come una influencer qualunque, sulla copertina di Vogue, non sulle pagine di Lotta Comunista (anche perché non hanno foto...). E, ancora, quella voglia, a dire il vero sempre più stanca, di épater le bourgeois, magari con la solita litanìa sui diritti civili più estremi, l'immigrazionismo senza se e senza ma e l'ecologismo più talebano. Argomenti che non sbalordiscono più nessuno, tantomeno i borghesi, categoria della quale fa parte lo stesso ceto dirigente del Pd. Ecco, il segretario dem è l'epigono finale di questa sinistra che ha stufato anche la stessa sinistra.

Elly è l'ultima ad aver lasciato l'assemblea fumosa di cui sopra e ha chiuso la porta. Sul Sessantotto. Per questo il suo fallimento è anche la fine degli ultimi fastidiosi lasciti di quell'era. Con 55 anni di ritardo. Ma è pur sempre un successo.

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