«Serve un afflato di libertà, bisogna che i magistrati che ci credono davvero decidano di combattere per una giustizia più giusta». L'ex leader Anm Luca Palamara sorride sotto la sua barba nerissima, l'ennesima assoluzione dell'ex premier Silvio Berlusconi dal caso Ruby lui l'aveva prevista, da anni dice che l'inchiesta della Procura di Milano che si è schiantata definitivamente era parte di una strategia precisa, iniziata nel 2010 con lo scoop di Repubblica su Noemi Letizia e le famigerate «dieci domande», l'intervista indignata all'ex moglie del Cavaliere Veronica Lario, la campagna mediatica che ne seguì, cavalcata ovviamente dal Pd dopo neppure un anno dall'insediamento di Berlusconi a Palazzo Chigi e infine la presunta escort Patrizia D'Addario, meno strutturato ma che infanga ugualmente il Cavaliere e su cui piomba il Corriere della Sera. «Eccolo il Sistema di cui parlo, quello che parte dal fronte inedito dell'etica personale e dei comportamenti sessuali su cui viene chiamata Ilda Boccassini, che in quel momento era alla procura Antimafia». Una mossa che secondo Palamara al tempo diede il segnale delle priorità che la magistratura si era data: prima le veline poi i boss. «Senza chiedersi prima se quei comportamenti costituivano reato oppure no», come ribadisce ancora oggi la sentenza del tribunale di Milano. Quella su Ruby è un'inchiesta che va molto più velocemente di altre (vedi quella su Expo 2015 o Sea...), con l'allora leader Anm Giuseppe Cascini che accusa Berlusconi di non avere alcuna «legittimazione storica, politica e culturale e anche morale per riformare della giustizia», ricorda Palamara.
A guidare la Procura allora c'era Edmondo Bruti Liberati: «Al tempo era uno dei magistrati più potenti e temuti d'Italia, vero faro dell'egemonia culturale della sinistra giudiziaria», l'inchiesta lascia perplessi molti magistrati. Ma Bruti Liberati va difeso a oltranza, ricorda Palamara: «Quando il suo aggiunto Alfredo Robledo lo sfida al Csm sulle inchieste dimenticate il presidente Giorgio Napolitano ricorda ai consiglieri che il capo ha il diritto di decidere a chi affidare le indagini, come a dire Bruti Liberati non si tocca».
Poi la ciliegina, il cortocircuito definitivo della giustizia: «Enrico Tranfa, presidente della Corte d'Appello di Milano, vuole la condanna ma viene messo in minoranza. Legge la sentenza di assoluzione e si dimette dalla magistratura per protesta».
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