Gli eroi di Be'eri: "Noi vivi tra i cadaveri"

I sopravvissuti del kibbutz della strage del 7 ottobre: "Abbiamo combattuto, ricostruiremo"

Gli eroi di Be'eri: "Noi vivi tra i cadaveri"

Di fronte all'entrata di marmi e palme di plastica dell'hotel David di fronte al Mar Morto, fra le dune gialle e le rocce saline, si accalcano i sopravvissuti del kibbutz Be'eri. Come in un film di Fellini arriva una fila di Porsche, di lucide Alfa Romeo, macchine di lusso: vengono a prendere i bambini orfani, dispersi, scioccati, privi di casa e di bussola psicologica per farli sorridere un minuto: è una fila di volontari che ha rastrellato le auto rombanti. Stasera viene la famosa cantante Yardena Rasi. I doni invadono l'hotel, pollo arrosto, humus e pita, torte fatte in casa. Vestiti nuovi per tutti, dottori, psicologi. Si aggirano offrendo aiuto alla folla di profughi che affolla la hall. A gruppi si abbracciano, si riconoscono, ringraziano. Non c'è libro che possa contenere tutte le storie di questi cittadini dignitosi e quieti, eroi, parenti di gente fatta a pezzi, di figli di rapiti, scampati per caso alla mattanza di Be'eri. Quei bambini che corrono in molti hanno visto uccidere un fratello, i genitori. Il kibbutz contava 1.200 persone, agricoltori, una tipografia orgoglio del kibbutz pacifista. 350 morti sono stati trovati fra le sue rovine fra cui molti terroristi. Be'eri sa combattere. Le case sono bruciate, le finestre sfondate, le porte a pezzi, la mobilia e gli oggetti i terroristi li hanno polverizzati mentre la loro corte saccheggiava. Ma la storia dell'assalto comincia con un eroe, Ari Kraunik, capo della sicurezza, che corse verso i terroristi appena gli fu segnalato che entravano al kibbutz, riuscì a fermarne sette, e poi fu ucciso a spari. Le storie da non dimenticare mai adesso, all'hotel, sono qui con noi.

Doron Tzemach è un piccolo uomo calmo e dignitoso, ha perduto Shahar, suo figlio. La sua resistenza durata ore ha salvato la vita a tanti altri membri del Kibbutz. Shahar parte della sicurezza, ha capito fra i primi cosa stava succedendo. «Alle 6,30, fra gli scoppi dei missili troppo veloci, insoliti, ricevette il messaggio di allarme. Subito ha preso l'arma, ha mandato Ella di 4 anni e mezzo e Annetta di 2 e mezzo con Ofri, la moglie nel rifugio. E lui è uscito a salvare la gente, uno contro cento. Shahar aveva 37 anni, fiore d'Israele, attivista della pace, nella tradizione del kibbutz e della famiglia. I terroristi cercano le prede. Shahar è corso alla clinica dentistica, da dove veniva una richiesta di aiuto. Nella stanza c'è il medico, l'infermiera Nirit e la stagista Amit. Da là mentre cominciano a arrivare in forza i terroristi fra le case, sparano e appiccano il fuoco, Shahar raccoglie un ferito grave, fino in fondo conduce una battaglia a fuoco mentre le persone intorno a lui vengono ferite. Resiste a lungo. Scorge i terroristi al giardino degli scivoli e vede un elicottero militare: «Sparate», chiede. Gli rispondono che non hanno il permesso. I gruppi delle belve compiono le loro mostruosità, alla fine assediano Shahar. «Fino alle 2 del pomeriggio è riuscito a ucciderne almeno 5, credo», dice il padre. A Efri scrive di continuo mentre finisce le pallottole: «Non vi preoccupate, arriva l'esercito, metti il frigo davanti alla porta». Il kibbutz non riesce a serrare i rifugi, i terroristi arrostiscono gli assediati. Uno dei feriti nella clinica muore, al secondo morente Shahar mentre spara ripete «sei forte, resta con me, parlami, va tutto bene». Gli uomini di Hamas gettano contro la porta bombe a mano e sfondano. Nirit, l'infermiera, resterà immobile due ore dentro l'armadio. Shahar e il suo compagno Eitan si battono fino alla fine, un altro salvato seguiterà ore a fingersi morto. IL meraviglioso figlio di Doron, Shahar lascia per sempre le sue due bambine piccole e il padre, che solo per un attimo piange fra le mie braccia.

Avida Bachar su una sedia a rotelle mi guarda fisso coi suoi occhi neri, preciso sfida la realtà. La gamba destra è saltata via. Il braccio sinistro ferito. Alle 7,30 Avida si rifugia con la famiglia, sicuro che fra poco arriverà l'esercito. Lui, la moglie Dana, Hadar, di 13 anni, e Carmel di 15. I terroristi invadono la casa, cercano di entrare spaccando tutto nel rifugio Al mattino del 7, Dana e figli fanno pipì nelle pentole, e con questo unico liquido, bagneranno gli stracci per coprirsi il viso quando i terroristi col fuoco dalla porta e dalla finestra del rifugio li soffocano. L'arabo dice «ftach el bab» apri la porta, lui risponde «Ruch», «vattene». «Ci sparano, a Carmel portano via un braccio, a me poco dopo una gamba. È un lago di sangue. Ho resistito cosciente fino a non averne più un goccio. Ci tirano tre bombe a mano. Hadar scrive senza mai smettere su whatsapp. Sangue ovunque. Dico a Dana che la gamba è chiusa nei jeans, cerchiamo di legare il braccio di Carmel con una federa. Cado all'indietro, soffochiamo, i terroristi sparano due colpi, tac tac. Dana dice ahi, respiro male, e io dico ai ragazzi, la mamma sta bene adesso, state tranquilli, nessuno può farle più male. Allora Carmel mi ha detto: babbo seppelliscimi col mio skateboard, ha tirato gli ultimi due respiri e se n'è andato. Siamo rimasti noi due, ho detto a Hadar. Non ti preoccupare per me ha detto, sto bene. Quando sono arrivati a prenderci mi ha fatto caricare sul tank e poi sull'ambulanza, e mi ha salvato».

I genitori e i figli dei rapiti hanno il volto contratto, la loro voce ti interroga. Così Ella di 23 anni, che dormiva col suo compagno, e ha rivisto, bruciata la casa dei suoi genitori, Ras e Ohad Ben Ami, rapiti. «I messaggi di mio padre raccontano tutta la storia: sono entrati, rompono tutto, entrano nel rifugio. Poi 5 giorni fa ho visto mio padre, in un video, buttato sotto una tenda. La mamma è molto malata, ha bisogno delle medicine. Aspettiamo disperati». Nir Shani ha quattro bambini, Micha di 18, Amit di 16, Emma di 12, Rani di 9. Ma Amit è stato rapito, non se ne sa più nulla. Nir sorride, Amit è un grande tifoso della Juventus. «L'anno prossimo lo porto in Italia». Nir ha resistito chiuso nel rifugio mentre quelli erano per ogni dove nella sua casa, spaccavano, urlavano Allah hu akbar, davano fuoco. «Mi sono fatto una maschera con una federa, e mi dicevo, mentre telefonavo a mia figlia: così si muore? Che strana cosa. La porta era bollente, ero al buio, poi mi hanno portato semisoffocato all'ospedale, e allora mia moglie mi ha detto che hanno preso Amit alle 12 circa. Cercava una conferma nel mio sguardo: Amit è saggio, saprà come cavarsela».

Golan Abitbul sa un po' di italiano, 44 anni. Ha chiuso la sua famiglia con quattro bambini dentro il rifugio e poi ha deciso di rischiare la vita armato solo di una Smith e Wesson, andando di casa in casa a cercare di tirare fuori dai piani alti la gente che bruciava viva. «Prima tre, poi sei di Hamas armati di RPG, io però dovevo andare a prendere tutta la famiglia di mio fratello con i due piccoli, e portare anche loro da noi. Dopo ho chiamato via via varie famiglie la cui casa era in fiamme: vi prendo io, correte fuori o morirete bruciati. Aiutavo a scappare e mettersi in salvo.

Quando sono arrivati i soldati coi tank, ci hanno detto: «Andiamo, tappate gli occhi ai bambini che non vedano lo strazio. E così coi bambini siamo andati fra i cadaveri, i pezzi di corpo, le case bruciate». «Ricostruiremo», mi promette. Ci credo, sono un gruppo di eroi.

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