«Il rinascimento della moda italiana» titola Le Figaro a meno di una settimana dall'articolo in cui la fashion week che si è svolta a Milano dal 22 al 28 settembre è stata descritta come «cronaca di un disastro annunciato».
In entrambi i casi l'autrice è Emilie Faure, seconda firma di moda del primo quotidiano di Francia per cui speriamo che la sua apparente incoerenza dipenda invece dal rispetto di una vecchia regola del giornalismo: i fatti separati dalle opinioni. Infatti i numeri ci danno ragione: la live room sulla piattaforma Tencent che ha trasmesso i nostri show in streaming ha avuto 26 milioni e 187.294 visualizzazioni. Inevitabile a questo punto sperare che anche a Parigi le cose vadano bene prima di tutto perché i francesi hanno scelto come noi la formula «phigital» e su 83 appuntamenti in calendario 40 sono dal vivo e questo è un rischio colossale in un Paese che ieri ha registrato 11.123 nuovi contagi. Inoltre i marchi del lusso francese producono il 60 per cento delle loro collezioni in Italia, per cui se va bene ai cugini d'Oltralpe va bene anche per noi e viceversa. Certo è una gran bella soddisfazione che il primo grande nome a sfilare dal vivo a Parigi sia stato Dior, disegnato da Mariagrazia Chiuri, romana de Roma e con robuste radici pugliesi.
Come se questo non bastasse la collezione della prossima primavera estate in passerella ieri nel mega cubo bianco appositamente costruito nel giardino delle Tuileries, aveva moltissimi riferimenti alla cultura italiana degli anni '60/70, l'epoca d'oro del nostro design. I 350 invitati (a febbraio erano 1500) sono potuti entrare solo dopo aver rispettato un rigido protocollo anti contagio. Sul computer ci sembrava che le sedute non permettessero abbastanza distanziamento sociale, ma il set era di sicuro spettacolare con 12 vetrate composte dalle cosiddette poesie visuali di Lucia Marcucci, scrittrice e artista nata a Firenze 87 anni fa e tuttora attiva nella costruzione con la tecnica del collage di opere chiamate «cattedrali di poesia».
La sua arte viene raccontata con un film di 80 minuti girato da Alina Marrazzi su cui poi s'innesta la musica cantata dal vivo dall'ensemble vocale Sequenza 0.3 con 12 coriste magistralmente vestite da tubini bianchi decorati da parole in rosso e nero. Tutto questo ci sembra lontano mille miglia dalla collezione e dall'intelligente riflessione di Maria Grazia Chiuri che parte dalla geniale intuizione di Nanni Strada sull'abito come habitat del corpo per adattare l'universo semantico di Dior alla nuova realtà con cui il mondo fa i conti dopo la pandemia. Per cui le linee si ammorbidiscono, le costrizioni spariscono, il modo di vestire è meno pubblico e più privato oltre a comprendere una sorta di nostalgia per un altrove che oggi è difficilmente raggiungibile. Maria Grazia dice di non aver fatto nulla di etnico e tantomeno di folk anche se la presenza dei disegni Paisley che in mezzo a tutto sono un segno distintivo di Etro, direbbe il contrario. Piuttosto cita un cappotto creato da Yves Saint Laurent nel '59 per Christian Dior e fa notare l'impeccabile lavoro sul tessuto chinè trattato come un ikat, la maglieria-capolavoro, le ballerine fatte da un unico pezzo di rete ricamata, l'acconciatura a turbante e la borsa con le nappine.
A noi ricorda in bello lo stile delle ragazze del cosiddetto Movimento 77 che portò le istanze femministe alla Sapienza di Roma. Certo nessuna era così chic da indossare un abito in chiffon verde di prima mattina, ma la moda, si sa, è sempre capace di sognare.
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