La Cop29 di Baku sarebbe dovuta essere l'edizione di consacrazione della Conferenza delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici ma si è trasformata in un grande flop. Quando lo scorso anno i grandi del pianeta avevano annunciato con toni trionfali alla Cop28 a Dubai il raggiungimento di un accordo per un fondo di riparazione da cento miliardi di dollari per i paesi in via di sviluppo, tutto lasciava presagire che la Cop29 di Baku sarebbe stata in discesa per trovare obiettivi climatici condivisi ma, nei fatti, non è stato così. Già le premesse non lasciavano presagire nulla di buono con l'assenza dei principali leader del pianeta, non solo i presidenti di Cina, India e Russia (tradizionalmente restii a farsi vedere alle conferenze sul clima) ma anche l'assenza di Macron, Scholz, Ursula Von der Leyen, Biden e addirittura due icone dell'ambientalismo come Lula e Re Carlo d'Inghilterra. Tutti avevano una scusa valida (a loro dire) per non partecipare ma in realtà si è trattata di una precisa scelta politica. Come se non bastasse, nel giorno dell'apertura della Cop, è arrivato l'annuncio di Donald Trump che, come primo atto della sua presidenza, ha dichiarato il 20 gennaio avrebbe firmato l'uscita degli Stati Uniti dagli accordi di Parigi sul clima. Giorgia Meloni ha invece partecipato con un discorso che è stato una stoccato contro l'ambientalismo ideologico rivendicando un ecologismo del buon senso di stampo conservatore, anche se la presenza della Premier è stata legata più che altro al fatto che l'Azerbaigian rappresenta un partner energetico strategico per l'Italia per l'esportazione di petrolio e gas. Proprio il ruolo degli azeri come produttori di fonti fossili ha suscitato numerose polemiche e rimostranze con varie associazioni ambientaliste che si sono interrogate sull'opportunità di ospitare la Conferenza sui cambiamenti climatici. Ha poi suscitato scalpore la dichiarazione del padrone di casa, il presidente azero Ilham Aliyev , che nel suo intervento alla Cop29 ha definito petrolio e gas «doni di Dio».
Ma la parte più complessa è stata la trattativa per raggiungere un accordo finale della Conferenza, in particolare il nodo del contendere è il nuovo fondo per gli aiuti sul clima ai paesi in via di sviluppo. La proposta di portare il fondo a 250 miliardi di dollari è stata definita «uno sputo in faccia dai paesi più poveri» e più di trecento ong hanno invitato i paesi in via di sviluppo e la Cina a lasciare la conferenza delle Nazioni Unite sul clima a Baku se i paesi ricchi non avessero aumentato il loro impegno finanziario. Anche la successiva proposta (sostenuta dall'Ue) di stanziare 300 miliardi per il fondo è stata rifiutata. Per comprendere la distanza tra la posizione dei paesi occidentali e di quelli emergenti e in via di sviluppo del gruppo G77 più la Cina, basti pensare che la loro richiesta è stata quella di un fondo di 1.300 miliardi di dollari l'anno.
È probabile che nel corso della notte si troverà un accordo ma rimane la questione politica di fondo: le grandi conferenze sul clima, così come sono concepite, rischiano di essere sempre più inefficaci.
Non rendersi conto che il contesto globale è cambiato e continuare a portare avanti da parte dell'Europa politiche ambientali auto colpevolizzanti che non coincidono con quanto realizzato dalle altre grandi nazioni (Cina e Usa in primis), significa condannarci all'irrilevanza industriale senza peraltro riuscire a impattare sul tema dell'ambiente a livello globale. Inoltre, qualsiasi cifra verrà proposta per il fondo ambientale, sarà ritenuta insufficiente in un gioco al massacro per la nostra economia.
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