Più o meno alla metà di dicembre del millenovecentonovantadue, a Milano cominciò a girare la voce che, per via della famosa inchiesta Mani Pulite, era stato emesso un avviso di garanzia all'indirizzo di Bettino Craxi. Facevo, a quel tempo, il cronista giudiziario, e venni incaricato di controllare la notizia, la quale da una parte era attesa, dall'altra continuava a sembrare incredibile perché, nonostante la tempesta abbattutasi sui socialisti, Bettino Craxi rimaneva Bettino Craxi.
Non sapevo dove andare a sbattere la testa. In Procura, nessuno avrebbe confermato l'avviso di garanzia, perlomeno a me. Mi venne in mente un noto avvocato milanese, legale a quei tempi di alcuni maggiorenti della Dc, partito che era sì alleato di Craxi, ma alleato come lo si è in politica, e cioè per convenienza anzi per necessità. Avessero potuto, i democristiani si sarebbero volentieri liberati di Craxi: e viceversa.
Andai dunque da quell'avvocato e gli chiesi se avesse notizia dell'avviso di garanzia. «Non so un cazzo», mi rispose, «ma faccio subito una verifica». Prese il telefono e parlò con non so chi, senza mai pronunciare il nome di Craxi; e usando un linguaggio evidentemente in codice, del quale non compresi nulla. «Ora aspetta un attimo», mi disse alla fine della telefonata. Tempo tre minuti, e dal suo fax uscì integrale il documento dell'avviso di garanzia a Craxi.
Questo episodio mi è venuto in mente ieri mattina quando, a Radio24, ho sentito l'ex vicepresidente del Csm David Ermini. Intervistato da Simone Spetia sull'affare del dossieraggio che in questi giorni sta sulle prime pagine dei giornali (non su tutti), Ermini ha concluso il proprio intervento dicendo che ora è importante difendere il giornalismo d'inchiesta, linfa vitale per la democrazia. Parole sante, anzi sacrosante. Ma che cos'è il giornalismo d'inchiesta?
Non, ad esempio, il ricevere un fax che impallina un avversario politico. Allora feci il mio dovere, ma non un giornalismo di inchiesta. Il quale prevede di fare quello che predicava ogni mattina in redazione il direttore de La Notte Nino Nutrizio ai suoi cronisti: «Uscite di qui e tornate solo quando avete consumato la suola delle scarpe». Giornalismo d'inchiesta è andare in un posto, sentire le persone e raccontare quello che non è noto. È lo scoop di Tommaso Besozzi sull'uccisione del bandito Giuliano. È il lavoro di Bob Woodward e Carl Bernstein che portò alle dimissioni di un presidente degli Stati Uniti. È anche quello delle Iene che ha portato a un nuovo processo per la strage di Erba del 2006. Casi eccezionali, tanto che siamo qui a raccontarli.
Cosa molto diversa dal giornalismo d'inchiesta è la buca delle lettere. Dove per buca delle lettere s'intende il giornalista che sta lì ad aspettare che qualcuno gli infili una busta con notizie riservate: le quali, di solito, giovano a qualcuno e fottono qualcun altro.
Ai lettori vorrei ricordare alcune nozioni elementari ma, appunto, dimenticate. E cioè. Il giornalista, in questo caso il cronista giudiziario o di nera, può anche svolgere in modo encomiabile il proprio lavoro di verifica delle notizie, e a volte può perfino sbugiardare le fonti ufficiali. Ma non può fare quello che fanno gli inquirenti, e cioè polizia giudiziaria e magistratura. Non può ad esempio intercettare telefonate. Non può fare una perquisizione. Non può controllare le operazioni bancarie. Non può avere accesso insomma ad alcun documento agli atti di chi conduce l'inchiesta: a meno che qualcuno non glielo mostri.
E questo è il punto. I cosiddetti scoop giudiziari sono notizie che escono dalle procure, o da altri organi investigativi, e che qualcuno ha interesse a far uscire. Il giornalista-buca-delle-lettere scrive solo in parte per il suo giornale e per i lettori: il vero datore di lavoro è qualcuno che si serve di lui per far sapere quello che non vuole (o non può) far sapere direttamente.
Chi è questo qualcuno? A volte personaggi più o meno loschi: lobbisti, maneggioni della politica, servizi segreti deviati. Un sottobosco che tutto ha a cuore tranne che la libertà di stampa e la democrazia.
Oggi che sono di gran moda le docuserie sui grandi casi di cronaca, avrete senz'altro visto più volte inquadrati colleghi che si fanno mettere, come sottopancia nel video, la qualifica di «giornalista investigativo». Non ce n'è uno solo di loro che non concluda lanciando sospetti, paventando complotti, segreti di Stato, inquinamenti di prove, indagini deviate; e attribuendo tutto questo marcio a volte alla massoneria, a volte al Vaticano, a volte al tal politico, altre volte agli immancabili «servizi segreti» i quali però, a quanto pare, sono gli stessi che allungano loro le carte. Ogni volta che questi «giornalisti investigativi» debbono spiegare come fanno a essere a conoscenza di certe trame, dicono «me l'ha detto la mia fonte». E dietro il paravento di questo mantra, «la mia fonte», sempre anonima, nascondono i loro suggeritori.
Poi vanno in giro con l'aura da James Bond.Diffidate di chi si definisce «giornalista investigativo». Nella migliore delle ipotesi è un imbroglione. Nella peggiore, è qualcuno al servizio di qualcun altro che sta nell'ombra a cucinare polpette. Avvelenate.
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