Sarà un'estate differente per Giorgia Meloni. Sarà la prima estate senza Atreju. A malincuore la stessa leader di Fratelli d'Italia ha annunciato la cancellazione della nuova edizione che si sarebbe - come da tradizione - tenuta a Roma a metà settembre («scelta sofferta ma necessaria per concentrarci sulle elezioni», dicono i suoi più stretti collaboratori). Ed è questo l'elemento che, forse, più caratterizza l'estate di Fratelli d'Italia. Per il resto, i dirigenti del partito continueranno nell'azione di opposizione iniziata a inizio legislatura. La parola d'ordine, ora più che mai, è «coerenza». Quella che non ha fatto tentennare nemmeno per un minuto la Meloni di fronte alla prospettiva di essere l'unica forza politica all'opposizione di Draghi. E i dirigenti battono il territorio interessato dal prossimo voto per le amministrative raccogliendo i frutti di questa posizione intransigente. Fedeli al centrodestra, dicono, che governerà città e regioni. Ma sordi al richiamo di un governo «omnibus» con grillini e Pd.
Atreju, dicevamo, è stata cancellata. E i tradizionali confronti sul palco di Colle Oppio vengono ora sostituiti con il capillare tour promozionale del libro Io sono Giorgia (Rizzoli). E proprio durante una di queste tappe la Meloni ha tirato fuori gli artigli per lamentare quello che ha chiamato un «venir meno ai patti». Protestando per l'uscita del membro di Fratelli d'Italia dal cda della Rai.
Quasi a ogni tappa c'è stata una staffilata. A volte al governo, più spesso ai partiti che formavano il precedente governo giallorosso. Raramente, ma altrettanto incisivamente, agli alleati di coalizione.
Rientrati i malumori e le minacce di presentazione di candidati autonomi (per la Calabria si è anche fatto un nome: quello di Wanda Ferro), ora la campagna elettorale marcia spedita. La Meloni ha partecipato a tutte le iniziative importanti, muovendosi tra Roma, Torino e Milano per sostenere i candidati comuni. Ha fatto anche tappa a Villa Certosa, scortata da Ignazio La Russa. Un confronto diretto e schietto con Berlusconi. Per fare il punto sulle amministrative e per tratteggiare le coordinate degli scenari futuri. Quelli per intenderci che vedranno scegliere il nuovo presidente della Repubblica e che prepareranno il terreno per le politiche del 2023. Con la regola più semplice che resta graniticamente valida: l'alleato che ottiene più voti manderà il suo leader a Palazzo Chigi (la vittoria la danno per scontata). «Per noi era una regola sacrosanta anche quando avevamo 1,9 per cento dei consensi - è solito ricordare Francesco Lollobrigida -. Figuriamoci ora che viaggiamo verso il 20%».
Poi ci pensa la cronaca a offrire ottimi appoggi alla campagna elettorale di chi resta fieramente all'opposizione. Come la questione del rave party abusivo nel Viterbese (Meloni: «Italia allo sbando, zona franca per chiunque voglia delinquere perché qui la legge si può calpestare. Come succede con clandestini, scafisti, spacciatori, abusivi vari. I soli tartassati sono i cittadini onesti»), o gli atti di vandalismo verso il monumento ai martiri di Nassiriya (Lollobrigida: «Vandalizzare una statua dedicata a 19 eroi è uno schiaffo alla loro memoria»).
Fino all'aiutino dello stesso segretario del Pd che insiste sulla battaglia per lo ius soli (Meloni: «L'Italia è in ginocchio per la pandemia ma pensano allo ius soli, lontani anni luce dalle esigenze degli italiani»).
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