Per la finanza torna l'incubo Lehman: la lezione dimenticata del 2008

Dopo la grande crisi il Congresso Usa approvò nuove norme più severe sui bilanci bancari. Cinque anni fa la marcia indietro

Per la finanza torna l'incubo Lehman: la lezione dimenticata del 2008

Quindici anni dopo, ci risiamo. Come nel 2008, quando il fallimento di Lehman Brothers diede il via una crisi globale, la finanza americana torna ad essere l'epicentro di un terremoto che fa correre brividi di paura in mezzo mondo. «Non sarà la stessa cosa, la Silicon Valley bank è un istituto regionale, non può far ammalare un intera economia», rassicurano le autorità Usa. La speranza è che abbiano ragione. Ma quanto accade altro non è che la conseguenza del bello (e del brutto) della finanza Usa, insofferente ai livelli di regolazione che vengono considerati comunemente accettabili in Europa.

La minore pervasività di lacci e lacciuoli rende il sistema un potente motore di crescita, basti pensare alla facilità con cui vengono finanziate le start up dei più diversi settori. L'altra faccia è la fragilità alle turbolenze. Da questo punto di vista la già citata crisi del 2008 non sembra aver insegnato più di tanto. Dopo che il sistema creditizio Usa aveva sfiorato l'abisso, nel 2010 il Congresso Usa approvò il cosiddetto Dodd-Frank Act. Il provvedimento (il presidente della Federal Reserve era allora Ben Bernake, il presidente Barak Obama) creava una serie di vincoli di bilancio che le banche dovevano rispettare a garanzia della stabilità loro e dell'intero sistema.

L'ovvio punto di partenza è che il business bancario è per definizione instabile: il denaro, la materia prima con cui gli istituti di credito lavorano, è fornito in larga misura dai depositi, che di solito i risparmiatori possono ritirare, come si dice, a vista. Lo stesso denaro viene impegnato in prestiti alle imprese (che con gli interessi fanno guadagnare gli istituti) ed è quindi vincolato per quanto riguarda i tempi di restituzione. Il rischio è dunque quello di essere colti a metà del guado: con richieste di restituzione dei soldi prestati che non possono essere soddisfatte. Quello, appunto, che è accaduto alla Silicon Valley Bank.

Per risolvere il problema il principio di base è quello della «riserva frazionaria»: parte di quanto versato dai depositanti deve rimanere sempre disponibile per fare fronte a eventuali impennate nelle richieste di restituzione. Ma è su come calcolare queste riserve che iniziano i problemi. In Europa è in vigore il cosiddetto sistema di Basilea 3, una complicatissima ragnatela di norme (la versione standard è di poco inferiore alle 700 pagine) che regola i requisiti del capitale che le banche devono tenere pronto.

Negli Usa il Dodd-Frank act è ancora più lungo (mille pagine), ma nel 2018 un accordo politico bipartisan condusse all'alleggerimento delle norme per le banche al di sotto di certe dimensioni. Tra queste c'era, anche, la SVB. Tra le disposizioni che la banca era stata autorizzata a seguire in maniera più soft c'erano due parametri (rapporto di copertura della liquidità e coefficiente netto di finanziamento stabile) che stabiliscono quanto capitale una banca deve essere in grado di mobilitare in quattro e quattr'otto di fronte a una situazione di «stress». Molti analisti ritengono che se fossero state in vigore le norme stabilite nel 2010 il problema non sarebbe sorto. Invece, con gli aumenti dei tassi decisi dall'attuale presidente della Fed Jerome Powell, i titoli in cassa alla SVB hanno perso valore senza che i suoi dirigenti si ponessero immediatamente il problema delle riserve.

La paura ha fatto il resto, scatenando il cossiddetto «bank run» (il meccanismo è descritto da un film di Frank Capra del 1946 che in Italia viene di solito trasmesso per Natale: «La vita è meravigliosa»). L'unica consolazione: le regole europee di Basilea 3 non prevedono eccezioni.

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