Quella follia per spegnere un sorriso

Ci vorrebbe un Dostoevskij immerso nelle cupe e insondabili atmosfere pietroburghesi per raccontare quel che è accaduto nella barocca Lecce

Quella follia per spegnere un sorriso

Ci vorrebbe un Dostoevskij immerso nelle cupe e insondabili atmosfere pietroburghesi per raccontare quel che è accaduto nella barocca Lecce. Un movente troppo piccolo per un doppio omicidio troppo crudo, anche per chi mastica la nera. Un perché quasi invisibile, anche a volersi sporgere sul ciglio della pista passionale. Qui c'è un mozzicone ardente su un abisso senza fondo: «Erano troppo felici, mi è montata la rabbia». La disperazione. L'infelicità ancora più infelice a paragone di quella altrui, verificata sul campo infallibile della convivenza. Può darsi che prima o poi emerga un movente, come dire, più concreto, più rassicurante per noi che osserviamo sgomenti. Ma il mistero dell'uomo resta intatto. Anche in una epoca come la nostra, dove tutto sembra omologato, frullato, sbiadito in un'indistinta mediocrità.

La cronaca ci consegna personaggi che sembrano usciti dalla penna di qualche romanziere e invece camminavano fino a ieri per le strade delle nostre città. A Lecce come a Torino. «L'ho ucciso perché era troppo felice», si giustificava l'anno scorso il killer di Stefano Leo, accoltellato ai Murazzi. Dove quel troppo era un macigno insormontabile: qualcuno doveva pagare per il vuoto insostenibile che Said sentiva dentro. Un altro delitto inconcepibile, per noi che pesiamo le vite sulla bilancia dei torti, delle ragioni rivendicate, dei risentimenti per un'eredità attesa e svanita o per un amore non corrisposto. Ma ci sono intercapedini, dentro le anime, dove abitano sentimenti ancora più profondi, primordiali, ancestrali.

Talvolta queste passioni rompono le catene e, appunto, si scatenano come è successo con luciferina e meticolosa malvagità a Lecce: è il male che non è follia, ma ha dentro il seme implacabile dell'odio, vecchio come Caino e il sangue di Abele. Si può essere accecati dalla rabbia per tante ragioni, anche per quelle che a noi paiono vagamente adolescenziali: l'incapacità di portare sulle spalle lo struggimento dell'esistenza, l'impossibilità di colmare la distanza, sul display delle nostre giornate, fra le attese e la realtà. C'è chi non si rassegna alla propria dose di insoddisfazione o deve berne una troppo grande e allora riveste di ferocia la propria fragilità.

Forse nelle prossime ore emergeranno altri dettagli e il fondale scuro si chiarirà, pur nel perimetro della tragedia, ma forse no. Forse siamo al cortocircuito del mimetismo che René Girard ha descritto nei suoi saggi magistrali. Ma il cuore umano può suggerire quel che nessun movente saprebbe indicare.

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